Fino a qualche anno fa lavoravo vicino al piazzale del cimitero maggiore, la zona che per i milanesi è conosciuta come Musocco.
Il cimitero di Musocco, il più grande di Milano, è enorme. Non grande, enorme. Se uno non ci entra almeno una volta non può minimamente immaginare cosa significhi; è una vera e propria città di morti, con quartieri, isolati, rotonde, sentieri e vie. Non gli manca nulla: servizi, fontane, abitanti silenziosi e tanta gente che pur non anelandolo prima o poi si traferirà li; c’è perfino il bus che fa il giro interno, probabilmente per aiutare i più anziani e con tutta probabilità futuri abitanti ad arrivare a ossequiare i loro cari.
Essendo un animale solitario mi è capitato qualche volta di andarmene in giro in pausa pranzo per la zona e qualche volta, complice l’aver saputo che un conoscente è sepolto li, mi sono addentrato nei meandri del cimitero per curiosità. Già passando l’entrata e dirigendosi verso l’interno il cimitero maggiore suggestiona con la sua imponenza: l’entrata monumentale, i giardini disposti ordinatamente e simmetrici come un accampamento romano e un silenzio innaturale, specie a novembre: volendo fare facile ironia verrebbe da definirlo mortale. Se poi capita di camminarci in inverno dopo una nevicata ci si rende subito conto che la neve amplifica il silenzio ovattando il tutto, poco importa che le stradine siano comunque state pulite dai giardinieri.
La sensazione che traspira camminando per quei viali larghi abbastanza da farci passare un feretro è normalmente di calma e silenzio, ma con la neve si aggiunge una sensazione di uguaglianza che altrimenti rimane strisciante, sottintesa: la neve copre tutto in modo uniforme, non importa se hai una lapide, una croce o un monumento, non importa se sei appena stato sepolto o se sei morto da decenni; alla neve non frega nemmeno che tu sia ebreo, negro, italiano, fascista o partigiano: copre tutto di bianco come un lenzuolo copre un corpo sul tavolo mortuario.
Girovagando senza meta si passa per zone completamente diverse, come in fondo lo sono i quartieri di una città: la zona ‘ricca’, vicino all’ingresso, con tombe di famiglia, monumenti e statue degne di una piazza; la zona ebraica, un intero isolato fatto di tombe con iscrizioni indecifrabili e vegetazione secca e incolta; la zona dei soldati e partigiani, con le croci tutte uguali ornate da un tricolore che ben poco è servito sia al possessore della lapide che alla sua famiglia; la zona con le nuove sepolture, fatte da croci di plastica bianca con il nome del defunto indicato con etichette dymo e piantate in modo malfermo nella terra smossa recentemente; la zona dei dimenticati, come l’avevo definita io passandoci un paio di volte, ovvero quella delle tombe più vecchie a cui nessuno presta ne attenzione ne un saluto: sono i morti dimenticati da tutti, che magari non avevano figli, parenti, o che magari nessuno ricorda siano sepolti li. Ogni tanto mi sono fermato a guardare le foto, i nomi e chiedendomi chi fossero. Saranno stati felici in vita loro? Avevano amici, un compagno, un marito? Avevano figli? Erano ricchi o poveri? Malati o in salute? Sono morti sereni? Tutte domande che non avranno mai risposta se non qualche congettura e l’augurio che abbiano avuto, poveri loro, una vita felice.
Prima di uscire mi fermo davanti alla lapide di un uomo baffuto morto nel 1937 dall’aspetto giovanile e subito dopo mi rollo una sigaretta, noncurante del fatto che forse al cimitero non puoi fumare.
Saluto il caro estinto con un cenno del capo e mi accingo ad uscire, non prima di essermi fermato ad accendere; siamo all’aperto, non credo qualcuno se ne abbia a male, specie considerando che poco lontano si alza del fumo dal camino del crematorio. Appena il tabacco prende fuoco un grosso pezzo di neve si stacca dall'albero a fianco a me e cade sull'asfalto del vialetto; personalmente non credo alle coincidenze, mi piace pensare che ci sia un perché alle cose, anche le più inutili. Mi giro, mi guardo intorno e noto che null’altro si muove. Riprendo a camminare e prendo il viale laterale che conduce dritto verso l'uscita rallentando ogni tanto a guardare il panorama che mi circonda. Mi fermo poco prima di uscire davanti a una lapide della zona più vecchia per cercare di capire, non senza fatica, il nome quasi completamente cancellato dal tempo del proprietario del loculo. Subito dopo la mia attenzione viene distratta da un rumore di passi poco lontano: mi guardo in giro e a perdita d’occhio non si vede nessuno. Rimane solo il silenzio, a parte le cornacchie che gracidano lontane.
‘As you walk upon my unmarked grave, I will lie gazing up at you
My empty eyes see nothing, But remember the pain’
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