La conoscevano tutti, nel quartiere. Il nome esotico e particolare, Yvete, la personalità esuberante e il fatto che fosse rossa naturale in una città dove di rossi ce ne erano pochi contribuiva sicuramente a non farla passare inosservata. Ad essere onesti, Va detto che se Yvete non fosse stata una ‘pel di carota’ e se non avesse avuto quel carattere così attivo nessuno l’avrebbe degnata di uno sguardo: aveva un fisico normale e un po’ bruttino, il carattere e i modi erano genuini ma molto rozzi e riflettevano i suoi gusti e la personalità: non era sicuramente il tipo da poesia o da musica di archi, Yvete era il tipo da osteria e vino economico, da balera malfamata con musica equivoca e bestemmie e di certo non spiccava per cultura o acume.
Però era rossa e tremendamente coinvolgente con chi aveva a tiro, e possedeva un’altra qualità che la rendeva popolare: era parecchio allegra, e non solo di carattere. Cambiava spesso accompagnatore e, qualche volta, gli accompagnatori erano più d’uno nello stesso periodo. Yvete era esuberante, vitale, sempre pronta all’avventura e al piacere, ma non con tutti: era lei che sceglieva, sempre. Se non era per la bellezza o la simpatia si concedeva senza troppa titubanza a chi poteva offrirle qualcosa: divertimento, una cena costosa e una serata, alcool e cocaina o addirittura niente, ma solo se si era svegli abbastanza da prenderla nel momento giusto e con la giusta dose di sostanze in corpo.
C’era chi la adorava, chi la odiava, chi voleva redimerla e chi ne approfittava. Yvete, semplicemente, se ne fregava di tutto e continuava a fare tutto quello che le passava per la testa, senza curarsi di nulla se non della propria felicità: dopotutto a vent’anni e poco più si è spensierati e non si pensa al domani.
Qualche amico ci provò a farla ragionare, a mettersi in mezzo tra lei e i genitori ormai disperati per mediare una situazione critica e cercare di aiutare: il risultato fu che Yvete se ne andò assieme al primo venuto e si trasferì dalla parte opposta della città continuando a bazzicare il vecchio quartiere e le vecchie compagnie e ovviamente proseguendo con le vecchie abitudini, perché non è che il primo venuto poteva tenere a bada una persona come lei.
Con il passare degli anni il quartiere cambiò, cambiarono le persone e Yvete ne approfittò per tornare da vincitrice anziché da sconfitta. Dopo un aborto, un divorzio e una serie di cicatrici sembrava che finalmente avesse messo la testa a posto: conviveva con un uomo che sapeva gestirla, aveva due figli e ne approfittò per farsi voler bene come sempre, stavolta rigando dritto.
Certo era cambiata anche lei: a trent’anni il suo viso era segnato da anni di scelte sbagliate ed errori, ma tutto sommato ne era uscita abbastanza bene e finalmente aveva dato una mezza svolta alla sua vita che l’aveva tranquillizzata. Chi la dava per spacciata o morta o per strada a mendicare dovette ricredersi: con un colpo di coda e il suo solito savoir faire Yvete era riuscita a sistemarsi e a diventare una persona rispettata e rispettabile, per di più nel suo vecchio quartiere, con buona pace di vecchi e malelingue che l’avevano sempre vista come la variabile impazzita da tenere a distanza e che avrebbe potuto contagiare rovinare i figli con le sue abitudini discutibili.
Ci era riuscita: ora la gente le dava del lei, la salutava per strada e la vedeva per quello che era diventata: la madre di famiglia perfettamente integrata e attiva nella comunità. Ora, finalmente, il quartiere poteva tirare il fiato, perché non c’erano più storture.
Senza nessuna avvisaglia o sospetto, qualche mese prima del suo cinquantesimo compleanno il cuore cedette e Yvete Morì. Quando successe si trovava in sacrestia a parlare col parroco. Anche con il tempestivo intervento del curato che chiamò l’ambulanza non ci fu più nulla da fare;: Yvete se ne era andata.
D’un tratto la zona si ingrigì, come se fosse sparito il sole: la dipartita della rossa aveva portato via la gioia per fare posto al dolore. Anche se i più toccati furono i figli e il compagno, tutto il quartiere accusò il colpo, dai vicini all’ultimo ragazzo dell’oratorio che la conosceva appena. Si strinsero tutti attorno alla famiglia per aiutare, stare vicino e sopportare il colpo assieme: la ditta di pompe funebri regalò il funerale alla famiglia, il prete fece una messa memorabile e tutta la gente che la conosceva si era sperticata in lodi infinite verso Yvete, il faro del quartiere.
Qualche giorno dopo la definitiva sepoltura iniziarono a verificarsi strani episodi: lettere anonime alla famiglia della defunta, la tomba profanata con escrementi o rifiuti e altri gesti che non fecero altro che aumentare la compassione verso la povera morta e l’odio verso il dissacratore di cotal madonna, che evidentemente era qualcuno che non voleva che la povera donna riposasse in pace.
Visto che le azioni non accennavano a smettere e anzi, continuavano a cadenza regolare, fu deciso da tutti gli abitanti di investigare assieme e scoprire l’autore di tali profanazioni e ingiurie.
Non ci misero molto, e il colpevole venne presto indentificato in Donato, il barbone del quartiere, quello mezzo matto che dormiva per strada. Alla domanda del perché di certe crudeltà verso una così splendida persona, Donato rispose con le sue verità che non piacquero a molti e vennero liquidate come i deliri di un povero ubriacone.
Non provarono a fargli cambiare idea: si decise che per preservare la tranquillità del posto e lasciare riposare Yvete in pace il senzatetto dovesse essere ‘accompagnato’ in un altro quartiere proibendogli il ritorno; dopotutto anche essendo l’unico ed innocuo, Donato era pur sempre un barbone mezzo matto e alcolizzato che era venuto a vivere in quel quartiere e chissà per che motivo se la prendeva con la rossa.
Lo caricarono in auto una sera tardi quando era troppo ubriaco per reagire e lo portarono dalla parte opposta della città buttando i suoi pochi averi in malo modo dentro una valigia recuperata dalla roba portata in dono ai poveri in parrocchia. Le ultime cose che si sentirono prima che Donato scomparisse per sempre dalla zona furono frasi sconnesse e senza una logica che tutti attribuirono al vino:
‘quella troia di mia moglie…la rossa vi ha ammazzato la cervella a tutti! Vi ha fottuti, e voi a leccarle il culo anche da morta quando vi chiavava i figli col prete che pippava…STRONZI! MALEDETTI! La mia Yvete, la mia Yvete…’
Fu l’ultima volta che nominarono ad alta voce la rossa; dopo qualche mese il ricordo di Yvete e della sua esuberanza iniziò a sbiadire per poi diradarsi sempre di più; l’unico a non averla mai dimenticata era stato Donato, il barbone, che trovarono morto un paio d’anni dopo in un canale con la testa rotta e una foto in mano: una foto vecchia, unta e sgualcita, che lo ritraeva il giorno del suo matrimonio con Yvete.
Se la rossa fu scordata in fretta malgrado il suo enorme contributo alla socialità del quartiere, Donato, che veniva visto solo come un peso e un imbarazzo e non era nemmeno nato lì, impiegò ancora meno tempo a far dimenticare la sua esistenza.
Fu solo dopo cinque anni che Donato tornò brevemente alla mente quando qualcuno collegò le frasi sconnesse che aveva detto il giorno in cui ‘se ne era andato’; solo dopo cinque anni si seppe che Yvete, mal sopportando la tranquillità e il passare degli anni, aveva ripreso le vecchie abitudini pagando in natura il silenzio del parroco e animando i suoi noiosi pomeriggi di irreprensibile madre casalinga assieme a qualunque persona volesse divertirsi, compresi i ragazzini che andavano in parrocchia per il catechismo: a chiunque bastava la voglia, il tempo e qualche sostanza più o meno legale per potersi ingraziare la rossa e le sue focose attenzioni nella sacrestia dietro la chiesa con il parroco che assisteva e, a volte, partecipava a quelle strane ‘funzioni’.
Malgrado tutto non venne fuori nessuno scandalo perché c’era già troppo imbarazzo per quello che era successo. Fu tutto dimenticato più che velocemente, qualcuno approfittò di conoscenze in curia facendo sostituire il parroco e tutti guardarono avanti seppellendo definitivamente ogni memoria o pensiero relativo a Yvete e Donato, finalmente riuniti nell’oblio.
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