mercoledì 10 gennaio 2024

CHE COSA E' ANDATO STORTO?

Arrivi a un certo punto della tua età e, complice la convalescenza della solita influenza e un po’ di spleen serale, ti ritrovi con una serie di pezzi anni ’90 su Youtube che girano a caso illuminandoti la coscienza e dandoti quel po’ di depressione adolescenziale dove ti fai la fatidica domanda: “ma alla fine, in che momento della mia vita le cose sono andate nel verso sbagliato?”
Risposta univoca, ahimè, non ce n'è. Scelte ne facciamo tutti i giorni e cose più o meno errate ne facciamo e ne faremo fino alla morte. Personalmente in quella serata mi sono reso conto di una serie di tappe della mia vita che avrei dovuto prendere in modo diverso o anche solo affrontare con uno stato d’animo differente.
 
Perché sì, lo stato d’animo è tutto.

Comunque, benvenuti nei momenti in cui la mia vita ha preso un giro diverso.
Ovviamente, a pensarci meglio, adesso sceglierei eventi più importanti o dolorosi, forse, o forse ne metterei altri sessanta, chissà.


1988

Hai 14 anni, sei ancora indeciso se continuare a giocare col Lego o con le macchinine ma la musica inizia a fare un po’ capolino tra i gusti.
Sei materialista, quindi l’idea di avere qualcosa di “etereo” come hobby suona male. Perché non continuare a buttare soldi nei treni elettrici o nel Lego? Malgrado tutto però, complici i primi dischi pop in casa e qualche video gaelotto su videomusic decidi, malgrado il costo proibitivo, di comprare il tuo primo CD, “On through the night” dei Def Leppard.
Inizi a fantasticare sull’idea di suonare in una band ma un po’ sei pigro, un po’ sei giovane, un po’ non hai ancora capito che se vuoi rancare una donna la soluzione più facile è proprio suonare e magari abbandonare l’idea anni '50 di trovarti una moglie a 20 anni come hanno fatto i tuoi genitori.


1993

Sei alto, sei magro, sei appena uscito da scuola, perdi la testa per le ragazze sbagliate, non ci combini un cazzo e non hai capito che sei in quell’età dove veramente potresti fare di tutto ma, al solito, sei pigro.
Non ti iscrivi all’unicersità perché non hai voglia né di studiare né di pesare sui tuoi. Eppure, forse, se avessi fatto chimica la tua vita sarebbe andata in maniera differente, visto che ci eri portato.
Potresti valorizzarti un minimo e fare le tue prime esperienze ma preferisci comprare gli LP dei Benediction (nulla di sbagliato, ma magari fare anche altre cose non sarebbe male…) e rimanere a casa.


1995

Stai cercando un lavoro, che mamma vorrebbe in ufficio da impiegato, ma con un diploma da 36/60 te lo scordi.
Pochi dischi, perché hai pochi soldi, ragazze nessuna, qualche amico mutuato dalle superiori, tutti iscritti all’università.
A Luglio la proprietaria del Pink Floyd pub ti offre la possibilità di lavorare lì per l’estate, ma hai deciso che devi andare al mare.
Errore, grosso errore. 
E lo capirai molto più avanti.


1996

Lavori in Magazzino e inizi ad avere i capelli lunghi come volevi. Compri dischi in maniera smisurata, inizi ad andare ai concerti, ti senti un minimo più sicuro di te stesso ma rimani lo stronzo pigro di sempre.
Però dai, diciamo che il fenobarbitale di terapia è una buona scusa, per essere pigri.
Ovviamente di ragazze manco l’ombra. Arriva di tutto, ma non quelle: che sia la puzza di disperazione, o l’idea di trovare a vent’anni la donna della vita non è chiaro, sta di fatto che al solito non ti accorgi di chi ti piove intorno e viceversa.
Ti sei comprato un basso ma morire se ti ci alleni, a malapena sai schiacciare due corde e non sai nemmeno come si cambia la muta.


2000

Era tutto perfetto: terapia, band, collezione di dischi, capelli lunghi e setosi col balsamo, idea di rapporto duraturo… ma no, qualcun'altra ha deciso che la vita doveva cambiare e oplà. Ti ritrovi a passare l’estate a Milano da solo, con l’unica colonna sonora possibile che è “The Great Beyond” dei REM (ed è un miracolo che non mi sia appeso al lampadario) e la decisione di mollare tutto al passato: magliette, capelli, cd black metal, band… sei talmente stufo di tutto che devi fare piazza pulita.

E lo fai.

Onore al merito, ma non troppo: perché buttare tutto nel cesso e cancellare il passato non è mai la decisione giusta, mai.
Il problema è che sei testardo, non senti ragioni, e tutto pur di trasformarti in qualcosa che non sai nemmeno tu se vuoi.
Ti capita la ragazza della vita (almeno per il momento) ma sei troppo impegnato a guardare indietro e non te ne accorgi.


2002

Non suoni e non ti pesa. Ti diverti e sprechi giornate su giornate in compagnia, compri dischi ma stavolta non metal, in maniera completamente impulsiva.
I Capelli rimangono lunghi ma non è più un mantra.
Viaggi un po’ di più, ma nemmeno troppo, in compenso hai interi Week end di cui non conservi ricordo.
Hai amici, pochi. Amiche, tante. Anzi, amiche che in alcuni casi vorresti vedere orizzontali ma non ti cagano perché sei brutto, pensi tu.
La verità è che non ti imponi, sei troppo accondiscendente mentre, detto da loro, vorrebbero qualcosa di meno gentile di te e più gentile del loro ragazzo.


2004

Maggiolino.
Moglie.
Dischi.
Continui a non suonare (ma nemmeno ti manca più, poi, diciamocelo). Inizi a rivalutare un pezzetto del tuo passato ma nemmeno troppo. Tutto inizia a diventare meno bianco o meno nero, ma ti va bene, alla fine. Col passato non ci fai pace o, almeno, non ci pensi più di tanto. Inizi a diventare pigro anche sull’odio, almeno in questo periodo.
È tutto nuovo, non proprio come lo hai sognato ma una specie.


2015

Le avvisaglie di qualcosa che non va ci sono tutte ma, per la solita pigrizia non le ascolti.
Iniziano le crisi, gli acciacchi, i capelli corti.
Malattie croniche ne abbiamo, ma non abbiamo né tranquillità né figli, come pensavi avresti avuto quando avevi 12 anni.
I capelli sono grigi, i dischi sempre di più, la band in cui suoni è in una fase di mezzo, ma l’unica cosa che ti tiene fermo è la speranza di poter proporre cose tue e l’essersi reso conto che ti mancava tanto, suonare.


2020

La costante in tutti questi anni è che non hai mai smesso di comprare dischi. Di qualsiasi genere, formato, supporto.
Hai l’ottima scusa, tra disastri personali e pandemia, per non fare un cazzo. Invece incredibilmente ti metti in forma, impari cose nuove, prendi fiducia in te stesso e sei molto più attivo di quanto lo abbia mai fatto negli ultimi anni.
Non suoni in una band da qualche anno e ti va bene così. Hai messo su la tua, di band, e sei molto più soddisfatto anche se le cose alla lunga sono durate poco. Hai scritto un libro in dieci giorni, ne hai un altro che sarà pubblicato ma non sai quando ma, malgrado tutto, non ti reputi un artista ma solo un povero stronzo che ha la fortuna di scrivere.
I capelli sono un po’ come vengono, ma iniziano a decidere che non hanno più voglia di rimanere in testa. Cruccio temporaneo, impari presto che rasarsi una volta a settimana la testa non è sto gran delitto.


2023

I capelli sono un lontano ricordo.
Hai un monte di dischi che aumenta quasi ogni giorno ma spesso e volentieri non sai cosa ascoltare o ti manca il pezzo dello stereo per poter sentire il supporto desiderato.
Non hai da tempo moglie, maggiolino, band. Hai una vecchia Renault che ti sei ripromesso di sistemare ma che non fai mai vedere, una nuova ragazza e teoricamente due band anche se nessuna continuativa.
Ti propongono di suonare o ti buttano d’improvviso nelle band ma non hai capito come ti senti: un po’ ti manca suonare, un po’ vorresti vivere in un bozzolo e dormire 23 ore al giorno come un koala.
La cosa curiosa è che spesso e volentieri ti ritrovi lo sguardo indagatore di un piccolo cane nero che non sai che si chiede cosa pensi o se implora per ulteriore cibo.

mercoledì 22 febbraio 2023

IL MENHIR

Un monolite.
Mi sento così.
Un menhir, una pietra, uno Stonehenge umano.
Malgrado faccia sempre cose diverse o cerchi di scampare alla mia vita, ritorno a tuffarmici con tutti i piedi nella routine. Forse sono troppo severo con me stesso mentre vedo gli altri che sono troppo indulgenti, forse iperanalizzo le situazioni. Sono ipercritico. E pure ipercretino.
Eppure il più delle volte mi pare di non aver fatto granché in vita mia.
Non sono famoso e nemmeno mi interessa, dopotutto il quarto d’ora Warholiano ce lo hanno tutti, prima o poi. Io facilmente lo avrò da morto, la platea più numerosa sarà presumo al mio funerale per uno spettacolo dove manco occorre che mi metta a parlare. Buffo, no?
Mi guardo in giro, staccando gli occhi dal cellulare: a fianco a me studenti, impiegati, persone varie che bene o male vedo ogni mattina.
E sono quasi sempre gli stessi, differiscono solo per i vestiti o il trucco.
Vedo qualche somiglianza con qualcuno che conoscevo. No, non è lui o lei, solo uno che gli somiglia, e la memoria riparte: chi è scomparso, chi ha divorziato, chi sta aspettando un figlio, chi si è trasferito.

Bene o male sono tutti cambiati.

E io? Dicono che abbia cambiato un po’ tutto, ma mi sento sempre il solito. L’unica cosa, qualche acciacco in più e i capelli in meno. Invecchio, mi sgretolo come una pietra con l’erosione ma rimango sempre lì, tra la soddisfazione di una stupida coerenza e il rimpianto di non aver preso il coraggio per scappare dalla buca che mi sono scavato con le mie mani.


Alle 17:00, sempre alle 17, cascasse il mondo se regalo un minuto di straordinario, esco dall’ufficio e volo verso casa. È una giornata grigia, non fredda ma uggiosa, una tipica giornata della Milano che mi piace. Non piove, ma l’umidità e il grigiore ti entrano nelle ossa.
L’unica differenza con gli ultimi dieci e passa anni è che oggi l’azienda ha deciso di darmi un premio. Nulla di che, è credo uno dei più bassi della ditta e lo hanno dato a tutti, ma non mi interessa. Alla fine l’ho preso e la cifra, per molti un’inezia, specie nel mio ufficio, per me è ragguardevole.
Molti mi hanno criticato, ma che devo fare? Sono bloccato in un ambiente tossico, a causa di età e reddito non riesco a cambiare, il mercato del lavoro offre sempre meno e no, grazie, ho un mutuo da pagare. Finché ho un posto fisso rimango qui, poi si vedrà, a meno che non trovo veramente l’occasione dei sogni.
In questo caso non è pigrizia, è realismo. Non posso permettermi salti nel buio, alla mia età e con la mia situazione. Quindi rimango bloccato qui, come molti, del resto.

Pazienza, ho altro. Metterò via il premio, ma come minimo mi organizzo una sera speciale con la mia compagna. 
Chiamo Marta.
“Pronto?”
Ha alzato il ricevitore ma non parla, tipico suo.
“eeeh…”
“Senti, so che sei incasinata, ma posso chiederti un favore?”
“Certo, di che hai bisogno?”
“Potresti prenderti un paio d’ore uno di questi giorni?”
“No, ecco, lo sai che non posso, sono incasinata, è un macello, ne avrò per almeno una settimana.”
“Vabè, ma non puoi dirmi almeno un giorno in cui puoi prendere mezz’ora?”
“Eh, la fai facile tu, esci sempre alle cinque, orario spaccato, mica sei come me che ho sempre macelli e faccio il giro dell’orologio.”
“Ma…”
“Non capisci, sono nella merda, mancano tre colleghi, non posso! Ci vediamo dopo, ciao!”
Chiude il telefono, io rimango a fissare lo schermo.
L’unico premio così grosso della mia vita, avevo pensato a qualcosa di speciale. 

Non so, regalarle una serata a teatro, una cena romantica, tutto assieme, farle fare il giro di Milano in tassì, qualcosa di speciale, qualcosa che potesse dimostrare che non sono un menhir fisso in mezzo al bosco e che anche io posso fare qualcosa di speciale con lei, per lei.

Ma è andata diversamente, e anche se stavolta non sono io l'artefice del mio immobilismo cosa importa?
il risultato non cambia, il menhir resta lì, saldo, al suo posto.

Wrote a song for everyone
Wrote a song for truth
Wrote a song for everyone
And I couldn't even talk to you

venerdì 17 febbraio 2023

SONO SOLO SCARPE

È incredibile come le più piccole cazzate ti facciano tornare in mente dei ricordi sepolti da decenni.
Stamattina, per esempio, ero in metropolitana, accalcato assieme ad altri sfigati come me in direzione lavoro che aspettavano il loro carro bestiame con relativa corsa al posto a sedere, che mi è capitato di piazzare i miei piedoni su una pozza, credo, di detersivo.
Credo perché non l’ho assaggiato e beh, fosse stata piscia me ne sarei accorto dall’olezzo.
Un pensiero va sull’altro e, grazie forse a un neurone (uno dei pochi che ancora mi girano nel cervello, direbbe la mia compagna) che rimbalzava sulle sinapsi, mi è tornata in mente l’epoca in cui andavo a scuola.

Cosa c’entra, direte voi?
Il trait d’union sono state le scarpe: io avevo i piedi su ‘sta pozza e mi sono messo a guardare le mie Asics prese in un outlet a 40 euro e l’occhio mi si è allungato sulle scarpe altrui, prevalentemente Nike. Da lì mi è partito un volo pindarico sulle Timberland, i paninari e l’edonismo degli anni 80.
Premessa: come qualcuno sa io sono andato a scuola dalle suore.
Elementari, medie, superiori, esperienza completa.

La privata fu una scelta fatta da mamma, ansiosa, per evitare scuole “brutte” dove in teoria era capitato mio fratello maggiore. E allora, mio malgrado, mi sono ritrovato a bazzicare pretume e gente prevalentemente benestante (benestònte, direbbe la Panerai) benchè fossi di un’estrazione sociale ben diversa. Potessi tornare indietro farei altro, ma ero piccolo e non decisi io.

Sì, ma che c’azzeccano le scarpe, direte voi?
Giusto.
Tolte le emementari (è un typo, ma troppo gustoso per non lasciarlo, effettivamente da piccoli siamo tutti dei meme), ricordo che alle medie ESPLOSE la moda dei paninari. Quindi marche, gergo, panini, fumetti apposta tutti sull’essere figo/abbronzato/spavaldo/che ostenta. Se vi ricorda qualcosa o qualcuno, tipo un’intera classe politica o i giovani d’oggi, sapete a chi dare la colpa, io sono vecchio e stanco.
Quindi, dicevo, io ero a scuola, con le scarpe “Soldini”, le tute del mercato con due strisce al posto di tre, i maglioni di nonna, la roba di mio fratello addosso e, se andava bene, un paio di Jeans Wrangler presi in Via Vallazze.
I miei compagni di classe avevano Timberland, calze Burlington, Fred Perry, maglioni Stone Island, scarpe Nike, i 501 della Levi’s col risvoltino, le cartelle della Naj Oleari e la Smemoranda (manco quella potevo permettermi. Alla scuola di suore ci mollavano loro il loro diario con le massime dei preti, poi mi parlate dell’indottrinamento di SS o integralisti islamici…).
Ricordo anche nettamente, su non so che giornale, la pubblicità di un paio di Timberland DA BARCA.

Ripetete con me: SCARPE DA BARCA.

Che vidi addosso a un mio compagno di classe una settimana dopo.
A Novembre. A Milano Lambrate. Con la Pioggia.
Scarpe da Barca ---> Milano a Novembre.

E, bene o male, erano tutti così. Anzi, eravamo perché ci cascai brevemente pure io: mi comprai un paio di Nike (che durarono un pelo più delle Soldini), e dei 501 presi difettati da un negozio che li vendeva a metà prezzo.
Ovviamente, non era abbastanza per il classismo dilagante dei ricconi delle medie, quindi non è che fui dileggiato, ma venni visto come il “wannabe”. Come tutti i ragazzini ci rimasi male il quarto d’ora accademico e cercai altri lidi. Non ero manco grande e grosso per menargli, visto che il metro e 90 lo raggiunsi molto tardi, verso la terza superiore.
Quindi subii.

E le prese per il culo continuarono quando scoprii Iron Maiden et similia e “cercai” con molte virgolette e disappunto soprattutto da parte di mamma, da vestirmi da metallaro. Perché ovviamente erano tutti tossici e barboni.
Insomma, ero fregato. Però almeno non ero così imbecille da mettere le scarpe da barca a Novembre, ed è già qualcosa.

Questo è lo scherzo che la memoria mi ha portato a rivivere oggi assieme a una considerazione: tre quarti di questi ricconi spavaldi che poi son diventati fasci autarchici e strenui difensori dell’Italia, erano quelli che prendevano un bel paio di Timberand americane a 150 piotte correndo il rischio di farsele fottere e snobbando il paio di “timberland generiche” fatte in Italia che costavano meno e duravano uguale.

E oggi ci si lamenta che le aziende italiane hanno chiuso e tutte ste belle vaccate.
Arbore diceva “meditate gente, meditate!”

Non ditemelo, lo dico da solo: sono un vecchio di merda, poi mi bevo un bianco spruzzato.

mercoledì 4 gennaio 2023

SCAFOSSO

La vita quotidiana in un paesino di montagna di trecentosettantasette anime quasi completamente isolato come Scafosso era a dir poco monotona: ogni giorno succedevano sempre le stesse cose, le persone erano sempre le stesse, non si muoveva alcunché
Era il perfetto paese da film Horror o da drammone sociale all’italiana: età media alta, praticamente nessuna nascita, non c’era nessun interesse industriale, turistico o agricolo nei dintorni.
Insomma, un bel paese dimenticato da tutti in fondo a una serie di tornanti dove ci si capitava di proposito e mai per errore, un borgo con una storia lunga ma che sarebbe prima o poi terminata con il decesso dell’ultimo abitante rimasto a meno che non si fosse spinto per ripopolare il paese.

E sì che a partire dagli anni ‘60, dal famoso boom economico, di interventi per rianimare Scafosso, che era già moribondo allora, se ne fecero, ma quasi nessuno andò a buon fine e la maggior parte durò come palliativo solo pochi anni riportando i numeri della popolazione allo stato iniziale.
Scafosso era, e rimaneva, IL borgo in cima al monte in fondo alla strada, ma fortunatamente autonomo: c’era la drogheria, il fruttivendolo, il panettiere, l’ufficio postale anche se sempre vuoto, la scuola, che perlopiù si impegnava come biblioteca e per lezioni agli anziani, la banca e l’ufficio comunale, anch’esso abbastanza privo di lavoro se non per qualche pubblicazione di abitanti emigrati altrove che si sposavano, qualche atto e i certificati di morte.

Ma la vita per Scafosso stava per conoscere un piccolo cambiamento: il 29 febbraio l’impiegato del comune, Michele Terzagni, fu trovato in casa esanime. C’era ben poco da fare perché il Terzagni era l’ultimo della sua famiglia rimasto, figlio unico coi genitori sepolti nel paese, senza moglie, né figli o eredi altri.
Il corpo fu così portato dal becchino nella cella frigorifera del macellaio del paese che lo conservò giusto il tempo per preparare il funerale e ricevere il nulla osta dal sindaco che firmò le carte e contestualmente richiedere all’ufficio provinciale una persona in sostituzione del Terzagni.
Il funerale (e la conseguente richiesta) partirono il 4 marzo con il Terzagni seppellito nella tomba di famiglia e la richiesta del sostituto partita regolarmente dalla posta del paese, a cura della Signora Borghi.
Sarebbe tutto filato liscio se non fosse che le poste prima e la Burocrazia poi ci misero lo zampino: la richiesta del sostituto di Terzagni andò persa non si sa dove e non se ne seppe più nulla.
Non fu possibile nemmeno rifare daccapo la domanda di sostituzione dell’ormai fu Terzagni perché non si poteva inoltrare una nuova domanda prima di aver ricevuto il rifiuto della vecchia, occorreva sollecitare la pratica esistente prima di procedere con la nuova, ma essendo la vecchia perduta senza alcuna prova tutto questo creava una enorme empasse e notevole ritardo nella nomina del nuovo impiegato dell’ufficio comunale di Scafosso.

La situazione rimase così in stallo, irrisolta, anche se la vita per Scafosso continuò in maniera placida, monotona, fino al 27 dicembre quando la marchesa Brinzilli, padrona della villa che dominava la valle e tenutaria della vigna omonima fu trovata priva di sensi nella sua scuderia.
Il medico, prontamente avvertito dallo stalliere, la trovò ancora viva ma iniziò a temere della sua lucidità quando si rese conto di cosa aveva tra le mani: La marchesa aveva infatti l’osso del collo spezzato, una cosa incompatibile con la vita, ma era a tutti gli effetti viva e vegeta.
Per quanto non ci si potesse dare una spiegazione logica, il medico curò la marchesa e quasi si dimenticò della cosa finché a qualcuno venne in mente una strana coincidenza: nessuno, dopo la dipartita del Terzagni, era più morto.

La mancanza di un burocrate che notasse i decessi aveva fatto sì che a Scafosso si smettesse di morire.

E fu così che a Scafosso non morì più nessuno. La vita nel paese riprese placidamente come sempre, senza sussulti, come era ormai da decenni.

sabato 23 luglio 2022

FA CALDO, PENSO TROPPO

Non è la prima volta che uso il blog per dei post ‘avulsi’ che non siano memorie, racconti, o storie altrui.
Credo sia la terza volta in sei anni che lo uso per considerazioni personali o sulla vita in genere.
No, nulla a che fare con Virus, guerra o politica. Se mi conoscete un attimo o se avete letto bene i racconti qui sopra vi sarete fatti un’idea del come la penso, per cui credo sia inutile ribadire concetti già noti.
Quello che mi frulla in testa con questo caldo allucinante è che finalmente ho raggiunto la consapevolezza relativamente a una serie di cose.

Ho quasi 50 anni e ho fatto il mio giro di esperienze, se devo ammettere parecchio diverse da quello che pensavo sarebbero state a 18 anni, ma quello vale per tutti, credo.
Alcune cose sono state più positive, altre più negative, altre semplicemente diverse o diversamente interessanti. E così, con già 30 e passa gradi di una mattina di luglio mi ritrovo a fare dei bilanci in attesa di un autunno caldo, almeno per me.

A fine anno uscirà il mio quarto libro (il terzo se non vogliamo contare il primo che considero un ‘demo’) e, visto quando e come l’ho scritto, mi chiedo cosa mi inventerò per promuoverlo, visto che al di là dei racconti e dell’ultimo questo è stato scritto tempo fa e parla in maniera forse troppo personale di me. Qualcosa mi inventerò, come sempre, sperando di non scadere troppo sullo strappalacrime o strappamutande.

Malgrado la voglia di suonare o comporre mi pervada (in maniera intermittente visti certi impegni personali o il caldo) la consapevolezza che ormai non riuscirò mai a pubblicare un disco dove ci sia uno o più brani miei è diventata, anziché frustrazione, una tranquillissima consapevolezza. Magari succederà, magari è già successo e mi hanno rubato i riff (chi lo sa!) ma nel caso non mi strapperò certo i capelli, tanto più che non li ho.

Le amicizie, a un certo punto si rarefanno, si perdono, si sfilacciano, ma alcune tengono o ci si ritrova. Fortunatamente per me, ho smesso da anni di pensare in maniera ‘stagna’ al “se sei metallaro (inserite quello che volete, io vengo da quella sottocultura) sei una brava persona”. Ci sono persone brave e gente di merda lì fuori, quindi la cosa fondamentale è riconoscere e distinguere a occhio merda da cioccolata: nessuno si vuole sporcare la bocca, no?
Recentemente ho avuto modo di rivedere certe persone con cui ho avuto ‘problemi’ e mi sono successe due cose:
  •  - l’eventuale problema è svanito in una bolla e non ci si vede spesso solo per mancanza di tempo.
  •  - l’eventuale problema per me è svanito davanti alla consapevolezza di aver frequentato una risma di falliti che non valevano il mio tempo, pertanto buona vita.

Direi che è tutto. Nel Caldo infernale della milano di fine Luglio Ascolto gli Hyponic (doom cinese) e mi bevo l’ennesimo caffé.

Ci vediamo al pub, alle presentazioni, a qualche concerto o non ci vediamo più, va bene tutto.

martedì 10 maggio 2022

L'ULTIMA OFFENSIVA

Finalmente al sicuro, finalmente ho chiuso tutte le porte.
Isolato finché vuoi, ma in tempi come questi non ci si può fidare di nessuno: basta vedere cosa sta succedendo al fronte, nei vari comandi, perfino ai generali di stati neutrali.
È una moria totale, si incolpano l’un l’altro dei decessi, nessuno sa chi sia il mandante o la spia, nessuno sa perché ci si ammazza a vicenda tra i militari di alto rango.
Io sono un soldato, non c’è un motivo, ci sono ordini da rispettare, mi viene chiesto di fare saltare qualcosa o prendere un avamposto, lo faccio. Costa delle vite? Non sono vite, sono danni collaterali. Che siano soldati, civili, animali, o altro. Se è una zona di guerra sono affari tuoi se rimani lì. Ormai siamo nel ventunesimo secolo, dove è la guerra lo sanno tutti appena scoppia, inutile nascondersi.
Eppure, sono lì a piangere la nonna di novant’anni che non ha lasciato la casa.
Se dovessi piangere io ogni diciottenne mandato su una mina antiuomo avrei gli occhi perennemente asciutti.
Ma è la guerra, sono battaglie, sono ordini da eseguire.
È l’onore, l’appartenenza al corpo, il prestigio.
Per quello io devo continuare, la mia nazione lo vuole, non posso lasciare il comando e questo mondo.
Io devo stare attento, mi spiace per gli altri.
Il Colonnello Morley, il sergente McAllister, il generale Ludendorff, il sergente maggiore Goscinny.
Tutti morti recentemente, non si sa come, credo suicidio perché, in questa guerra totale, non hanno sopportato la pressione e l’hanno fatta finita.
Inutile girarci intorno, erano deboli, si sono lasciati sopraffare dall’emozione, dal sentimentalismo, ma bisogna essere freddi, in momenti come questi.
È ormai notte, domattina alle cinque spaccate ci sarà la grande offensiva, ci sono molte cose in ballo. Guardo dalla finestra, le sentinelle fanno la guardia. Il palazzo è blindato, le porte sono chiuse, gli allarmi di massima sicurezza attivati.
Chiudo gli scuri di metallo, sono finalmente in pace, isolato nella mia stanza.
Un letto, una scrivania, una piccola agenda.
Mi basta, il resto è in cassaforte nel salone di sotto. Domani lo recupero un’ora prima dell’ordine di attacco.


…ma questo ronzio?
Una specie di sibilo.
Lo sento, sempre più forte.
Strano.


“Generale, povero lei.”
Eh?
“Generale.”
Mi giro.
“Chi sei? Come sei entrato?”
“Soldato semplice McCready, ventinovesima divisione di stanza a Thiepval”
È un’allucinazione.
“Sono stanco, sei un’allucinazione. Non è possibile tutto ciò.”
“Lo ha detto anche McAllister. Generale, mi offre una sigaretta?”
“Sei un’allucinazione.”
“Generale, io sono il frutto di ordini sconsiderati di gente come lei. Mi offre da fumare?”
Impietrito dalla mia allucinazione, porgo un sigaro. L’allucinazione lo accende. Aspira, espira.
“Dio, quanto mi mancava fumare. Vede, Generale, la vita a Thiepval non era troppo facile. Per me è stata anche breve. Sono durato venti giorni, al fronte.”
Thiepval, Thiepval… mi suona… ma certo, la Somme! E in effetti questa allucinazione e vestita come un soldato di fanteria della Prima guerra mondiale.
“Generale, ti mostro una cosa.”
Sono sempre fermo, impietrito. Si avvicina di un passo, mi appoggia le braccia sulle spalle. Sento prima un brivido, poi un dolore immenso al petto, poi vedo: vedo tutto: trincee, morti, feriti, disperazione, orfani mutilati, distruzione, i danni collaterali, ma visti dal punto di vista straziante di ogni vittima.
“Cosa sei.”
“Generale, io per i tuoi antenati non ero nulla se non una lettera per mia madre, una croce in Francia e una medaglia sul tuo petto, e tanti altri come me. Ora invece sono un fantasma che visita chi ci ha mandato a massacrare per la vostra cupidigia. Fa male vedere certe cose, vero?”
Non rispondo, non so cosa dire, sto malissimo, penso che non è vero, non può essere.
“Nessuno ci crede, dopotutto tu, Generale, non ascolteresti mai un fante. Ma tra poco sentirai uno sparo: è il tuo sergente maggiore, colpevole come te di tanto dolore.”
Sento lo sparo. Bussano. Il tenente mi dice che Galloway si è sparato. Insiste a bussare, ma non riesco quasi a parlare.
“Ma, quindi, i generali morti…”
“Generale, prendi la pistola. Dopo non farà più male.”
Estraggo la rivoltella, carico il colpo, guardo quello sguardo glaciale e spento.
“Bravo, Generale. Un colpo solo e avrai la pace.”
Lo guardo, sto per aprire bocca, mi anticipa.
“Sì, avrai quello che meriti.”
Premo il grilletto, sento il colare del sangue sulla guancia, nel mio ultimo attimo di vita colgo l’ultima frase del soldato:
“Finalmente vedrai l’inferno che hai causato a troppi, Generale. Addio.”

lunedì 25 aprile 2022

UNA BRUTTA INDIGESTIONE

Questo che leggerete è il finale di tre racconti, ovvero 'all work and no joy makes Alfio a dull boy' e 'la cena degli Alfio'. Buona lettura.


Mi fa male la testa, mi sta proprio scoppiando.
Mi rendo conto di essere in un letto d’ospedale e sono sfinito, completamente senza forze.
‘Come stai?’
Sara.
‘Sfinito. Sono sfinito. Ma dove sono?’
‘A Trento. Ti hanno portato qui d’urgenza, sei svenuto nella piazzola del ristorante. Pensavano fossi ubriaco perché urlavi, invece si sono resi conto dopo che stavi delirando e ti hanno portato qui.’
Mio dio, sono DAVVERO così andato?
‘E il medico che dice?’
‘Che vuoi che dica, ti hanno portato dentro stanotte, stanno facendo tutti gli esami e come sempre devono vedere e non dicono nulla, speriamo non sia nulla di grave e che sia solo un banale esaurimento.’
Già, un banale esaurimento. Non ci avevo mica pensato, fino adesso. Ma potrei avere qualsiasi cosa, un’emorragia, un tumore, chissà che altro. E magari le allucinazioni sono dovute a quello. Non so nemmeno cosa sperare.
‘Ma tu da quanto sei qui?’
‘Dalle sette di stamane, sono partita appena mi hanno chiamato.’
Mi sento una merda, l’ho fatta preoccupare, correre, piangere per cosa? Perché sto andando via di testa. Spero almeno ci sia una causa… non è bello comunque, ma almeno mi sentirei meno in colpa verso Sara. È qui, ancora più tirata, nervosa, con gli occhi pesti. Sorride nervosamente ma lo vedo che è preoccupata, la conosco.
‘Sara, ma come sei organizzata, adesso? Torni a casa, dormi qui?’
‘Intanto parlo con un medico e mi faccio dire, poi vediamo. Che non è che ti si lascia qui dassolo.’
Suono il pulsante dell’infermiera, arriva la moldava di turno, mi chiede che voglio. ‘Parlare col medico’, rispondo, voglio sapere cosa devo aspettarmi da un ospedale di Trento.
Dopo qualche minuto, entra un dottore sulla sessantina, un po’ claudicante, con lo stetoscopio buttato a caso sopra il camice slacciato.
‘Oh, si è svegliato. Buongiorno.’
Cominciamo bene. Perspicace, il dottorino.
‘Senta dottore, forse ha anticipato qualcosa alla mia compagna ma volevo sapere perché sono qui dentro.’
‘Aspetti.’
Sfoglia la cartella, legge, esce, sparisce dieci minuti mentre io divento sempre meno paziente e ricompare.
‘Perdoni, sono appena arrivato e dovevo vedere il quadro clinico e gli ultimi referti. Fortunatamente per lei, Busalla, non c’è nulla di patologico, nessuna emorragia, nessun aneurisma, nessuna lesione…’
‘Scusi, ma allora perché diavolo sono qui dentro?’
Ho la bestemmia sulla punta della lingua e un senso di colpa nei confronti di Sara grosso come un palazzo.
‘Si è beccato un bell’esaurimento. Gli esami del sangue sono sballati e tutto indica una situazione di fortissimo stress.’
‘Quindi posso tornare a casa e riposarmi?’
‘Non proprio. Adesso lei si passa qui altri tre giorni, facciamo ulteriori esami, poi la dimettiamo e vediamo se è il caso di darle una pastiglia per aiutare, almeno temporaneamente, la situazione.’
Già mi sto incazzando, tre giorni qui dentro e Sara chissà dove a dormire. Sto per aprire bocca ma lei mi precede.
‘Beh, se son solo tre giorni si può fare la ringrazio dottor…’
‘Alfieri. Alfio Alfieri. Lo so, suona strano, ma mia mamma ha avuto un gran senso dell’umorismo, diciamo così.’
Non fossi pietrificato dal terrore riderei.


Ho cenato decentemente per essere in ospedale, e mi sto rilassando guardando vaccate in tv. Mi sento meglio, decisamente. Tolto quel senso di colpa verso Sara e come l’ho fatta correre e preoccupare sto bene. Non ho nulla, devo riposarmi: semplice.
Appena torno a casa vado veramente a farmi una vacanza via, mi sento già meglio ma voglio recuperare ancora di più.
Entra il medico di turno, mi ero scordato del giro serale.
Si avvicina in maniera molto pacata, mi guarda in modo quasi paterno. Mi appoggia una mano sulla fronte e mi accarezza.
‘Alfio, Alfio… ma tu pensavi di sfuggire? Ma tu pensi davvero che sia tutto un esaurimento?’
Sono pietrificato, mentre lui continua a parlare: ‘Noi siamo te, e tu noi.’
Mi sorride in modo innaturale mentre la sua faccia cambia, diventando lentamente la mia.