Non mi manca molto alla pensione, in redazione mi hanno relegato vicino al cesso, seguo la cronaca di paese o la scandalistica ma ho l’impressione che il capo mi abbia affidato questo servizio più per il gusto di umiliarmi e farmi mollare che per darmi un lavoro vero e proprio che non sia scaldare la sedia. Così in men che non si dica mi ritrovo in un paese anonimo del Friuli, nell’unica bettola che funge da albergo, ad aspettare la messa di domani per vedere di scrivere due parole sul parroco e sul miracolo; eh già, perché pare che il prete in questione, un giovane prelato dal nome di Don Giulio, abbia non so che poteri taumaturgici. Pare che sia veramente in grado, durante la messa, di operare una sorta di miracolo anche se non si è ben capito cosa visto che tutti dicono ma nessuno spiega. Ho provato a chiedere in giro ma poca gente parla a un estraneo e d’altronde si sa, i friulani sono gente che lavora sodo e non è molto loquace, specie nei paesini.
Dopo la cena fatta nel salone sottostante a base di prosciutto, minestra di cavolo, frico e vino appoggiati sulla classica tovaglia rossa a quadretti da osteria mi sono spostato nella mia camera al piano superiore dove, aperto il pc portatile, ho praticamente scritto l’articolo lasciando lo spazio vuoto per le tre o quattro parole che dovrebbero descrivere il miracolo o i miracoli che succederanno. Chiuderà ferite? Guarirà gli infermi? Ridarà la vista? Sistemerà uno zoppo? Svecchierà l’arredamento del mio albergo e lo farà sembrare meno prevedibile? La tenutaria mi ha detto che è qualcosa di ‘soprannaturale’ ma non si è lasciata andare ad ulteriori spiegazioni, così mi ritrovo qui con un articolo già pronto ad aspettare le dieci di domani per vedere che succederà durante la messa.
La messa è iniziata da un po’. Non ci andavo da anni ma il rituale è sempre quello e mi ricordo a memoria tutte le formule, pure quelle del prete. Addirittura qualche brano delle letture mi torna spontaneo, dopotutto se vai a messa per trent’anni è normale che arrivi al punto dove puoi recitarla da solo a memoria. Forse per quello ho lasciato perdere: alla lunga mi annoiavo. La chiesa è mezza vuota, a naso direi che oltre alla gente del paese non c’è nessun altro, il vangelo è stato detto e Don Giulio è in piedi sul pulpito che sta per dire la predica. È rigido, teso, sembra quasi ingessato, guarda tutti attentamente nel silenzio più totale. Fissa tutti gli astanti negli occhi uno a uno, dalle prime alle ultime file, me compreso. Quando arriva il mio turno e quando incrocio il suo sguardo scuro, profondo, contornato dalle occhiaie di una persona che sembra non dormire da mesi, mi sento a disagio. Ho l’impressione che mi scavi dentro, che mi esamini, mi sezioni per poi farmi del male. Sto per guardare altrove ma il parroco volge lo sguardo alla congrega e finalmente inizia a parlare sorridendo e spiegando il vangelo del giorno molto brevemente.
All’offertorio, più per abitudine che per devozione, mi alzo e porto, assieme alla proprietaria della locanda, le particole per la comunione. Il prete mi guarda nuovamente con quello sguardo allucinato e mi benedice lasciandomi tornare al posto.
La messa continua normalmente e Don Giulio si inchina come da rituale declamando la formula.
‘Prendete, e mangiatene tutti: questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi.’
Alzo lo sguardo e vedo il prete teso, tremante. Si ferma, esausto, poi continua alzando il calice.
‘Prendete, e bevetene tutti: questo è il calice del mio Sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati.’
Lui è sempre più teso e io sono sempre più incuriosito. Cosa ci sarà di miracoloso in un parroco di trentacinque anni che ne dimostra sessanta e che fatica a dire messa? Non mi do una risposta e mi metto in fila poco dopo per la comunione. I fedeli sono in fila ordinata, io mi guardo per terra, ogni tanto butto un occhio al prete e vedo che dispensa le particole e sorsi di vino dai calici che ho visto sull’altare prima della messa.
Arriva il mio turno, Don Giulio mi guarda, dice la formula e mi porge l’ostia.
‘il corpo di Cristo’
Mi mette in bocca una cosa che sento fredda, molliccia e che riconosco subito essere carne. Mi porge il calice, mi fa bere un sorso del contenuto e scopro dal gusto che non è vino ma sangue. Vorrei sputare tutto ma non ci riesco, sono completamente ipnotizzato da quello che succede, mi ritrovo con questo boccone dal gusto assurdo in bocca e non so cosa fare. Guardo nella coppa e vedo dei pezzi di carne sanguinolenti al posto delle ostie. Cerco di non farmi notare e scappo fuori dalla chiesa. Una volta sul sagrato sputo tutto quello che ho in bocca sulla mano e trovo un grumo rossastro di carne masticata. Ho mal di testa, le campane suonano a festa in modo assordante e io non sto capendo più nulla. So solo che ho portato io le ostie ed erano normali, ho visto tutta l’elevazione e la benedizione e non né c’era carne, né altro…possibile che un prete si lasci andare a dei puerili trucchi da prestidigitatore? Mi pulisco come meglio posso e torno dentro per cercare di vederci chiaro. Nel tempo che io ho impiegato tra lo sputare tutto e riprendermi la messa è finita. Vado in sacrestia e chiedo di parlare con Don Giulio senza successo: mi viene detto dalla perpetua che conduce una vita molto ritirata e non vuole parlare con nessuno, tantomeno con un giornalista. Cerco di insistere ma nulla, non cavo un ragno dal buco; i friulani è risaputo che sono anche ostinati. Esco deluso dalla sacrestia e torno verso l’albergo, dormo l’ultima notte con un sonno agitato, incubi e un enorme punto di domanda in testa.
Il giorno dopo mi sveglio presto, dubbioso, faccio colazione e mi accingo a partire quando la padrona dell’albergo mi attacca bottone.
‘ha visto ieri?’
‘vedere, ho visto…ma non so se crederci’
‘beati quelli che anche se non hanno visto, crederanno’
‘non lo diceva Gesù a San Tommaso?’
‘lei è preparato, vedo. E allora perché anche se ha visto non crede?’
‘glielo ripeto. Non so cosa ho visto, non so che pensare.’
‘Vada in chiesa prima di partire. Si schiarirà le idee.’
Rimango interdetto davanti a un simile consiglio ma decido non so perché di seguirlo, penso che magari non ho notato qualcosa o che finalmente il prete sarà in buona per parlare con me. Torno alla chiesa, entro, mi godo le sculture, le vetrate, la via crucis. Mi faccio pure un giro al cimitero adiacente dove non trovo nulla di strano.
Cazzo.
L’ultima lapide su cui mi cade l’occhio ha incassata una foto di un volto che conosco benissimo, ma la data di morte, 1906, mi turba: impossibile, visto che quel volto l’ho visto ieri in chiesa a fianco a me. Penso al fatto che probabilmente si tratta di una somiglianza, faccio tre passi indietro e mi appoggio un attimo su una lapide per non cadere. Guardo il nome: Ginetta Calligaris, morta nel 1935. La foto, il nome, cognome, lo sguardo, perfino il porro sulla guancia sono quelli della padrona dell’albergo. Un brivido mi corre lungo la schiena, esco di fretta e camminando a passo spedito intravedo le foto di molti se non tutti i presenti alla messa, ben piazzate su lapidi o ossari anche se la sorpresa più grossa mi viene riservata per ultima, visto che proprio all’entrata c’è la cappelletta dei preti con la foto di Don Giulio ben visibile assieme alla data della sua dipartita: 13 agosto 1913.
Corro all’auto, e torno a casa, non voglio saperne nulla. Non so se sono pazzo, se ho avuto allucinazioni o cos’altro, non voglio saperlo. Non so nemmeno cosa scriverò sul giornale, anzi, non credo scriverò proprio un bel niente e dirò al mio capo che non è successo nulla.
Sono troppo vecchio per queste cose, voglio vivere tranquillo.
Gesù disse loro: “In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui” (Giovanni, 6,53-56)
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