Il bello di essere uno che lavora e non lega con i colleghi è che te ne puoi sbattere altamente dei loro problemi, dei loro inviti, delle loro vicissitudini portate in ufficio in modo del tutto gratuito. Non sono mai stato un orso di per sé, semplicemente non ho mai voluto immischiarmi granché, perché poi diventi conoscente, ‘amico’, confidente e ti tocca sopportare anche quello che non vuoi.
Ammetto che qualche volta mi è capitato di infrangere questa regola: la prima volta che lo feci ero giovane e immaturo, e pensavo che una storia sul posto di lavoro non fosse una cosa drammatica, o almeno non lo è fino a quando non iniziano i problemi. La seconda volta che mi sono lasciato coinvolgere è stato un paio di anni fa: io già nella mia quarantina con una vita regolare mentre lei era la collega giovane arrivata dal paesello e che portava con se un bagaglio sia scientifico/teorico che di ingenuità tipico della persona alla prima occupazione.
Era una ragazza decisamente carina, ben proporzionata, sempre elegante e posata, forse pure troppo. Aveva un non so che di aristocratico nel modo di fare e comportarsi, e io mi sentivo un po’ in soggezione perché mi sembrava di avere a che fare con quelle vecchie aristocratiche di altri tempi che ti giudicano se raccogli i piselli con la forchetta. Non ne ero innamorato, mi interessava come persona: il suo modo di vedere le cose, la purezza di sentimenti e la visione ottimista e non disillusa della vita, l’ingenuità. Tutte cose che mano a mano che passava il tempo in azienda svanivano piano piano, impercettibilmente. Fu allora che non so per quale motivo iniziammo a parlare: prima del più e del meno di sfuggita, poi quando ci trovammo su territori più familiari iniziammo a confidarci un po’ di più fino a diventare decisamente intimi. Era un rapporto amico/amica o se vogliamo fratello/sorella, cugino/cugina, genitore/figlio. Fu così che passammo agevolmente dal pettegolezzo sul collega al parlare di affitti, case, ragazzi, amici, moglie e psicologo per arrivare alla salute. Entrambi dividevamo problemi neurologici, più o meno conosciuti e più o meno conclamati; ci confrontavamo, parlavamo, ci supportavamo a vicenda. Ci si faceva coraggio, insomma.
Io rimanevo un disgraziato che beveva e faceva casino come un quindicenne, lei si curava e io per primo spingevo perché lei si curasse: insomma attuavo il solito predicare bene e razzolare male.
Ci perdemmo un po’ di vista, un po’ perché in ufficio a malapena si sapeva che ci parlavamo, un po’ perché non volevamo far sapere che avevamo un certo rapporto e un po’ perché credo che sia la differenza d’età che gli argomenti trattati non aiutassero a passare tempo in spensieratezza, così dopo un periodo di frequentazione più o meno assidua ci si beccava di sfuggita e si scambiavano due parole di fretta.
Dopo un paio di mesi mi ero rassegnato all’idea di non mangiarci più assieme e tornai a pranzare da solo e a prendermi il mio caffè senza problemi, la osservavo da lontano senza poter fare a meno di preoccuparmi perché la vedevo sfiorire ogni volta che la incontravo; diventava sempre più pallida, emaciata, tirata. Conservava la sua bellezza ma era una bellezza malata. Le volte che ci si incrociava mi sorrideva in maniera amara e stanca, quasi che dovesse farlo per circostanza e non lo volesse realmente.
L’ultima volta che la vidi scambiammo due chiacchiere veloci davanti al caffè con la promessa di vederci per parlare di cazzate a pranzo, ma non riuscimmo mai a concretizzare la cosa.
Per un motivo o per l’altro non riuscivamo a incrociarci e lei iniziava ad essere assente sempre più spesso finché non la vidi più in ufficio. Ai messaggi sul telefono mi rispose laconicamente che era tutto ok e che sarebbe tornata presto e che mi avrebbe raccontato tutto fino a che non rispose più del tutto.
Mi stupii quando non tornò più al lavoro ma non mi meravigliai più di tanto quando seppi che mesi dopo era finita in ospedale e non ne era più uscita; provai rabbia nel vedere una persona così carina e positiva spegnersi così, senza un motivo per me valido e amarezza, tanta, nel non aver avuto la possibilità di parlarle per un’ultima volta.
Andai al funerale ma anziché unirmi ai colleghi che spargevano condoglianze e dolore in pompa magna me ne rimasi in disparte come ero uso fare in ufficio; dopotutto ero lì per lei, non per dimostrare che c’ero ed ero un figo.
Dopo quella volta, anche se mi sono trovato a scambiare qualche parola di troppo con colleghe o colleghi, ho giurato a me stesso di non legare più con nessuno sul posto di lavoro.
Nessun commento:
Posta un commento