Mi sento un pinguino, avvolto in un completo grigio e strozzato da una cravatta dello stesso colore.
Oggi faccio da contorno alla giornata, fredda e pungente come non se ne vedevano da tempo. Sono uscito senza coprirmi bene e c’è un’aria frizzante che penetra le ossa.
Mi alzo il bavero del cappotto, grigio anch’esso, per cercare di ripararmi dal freddo. Non aiuta molto, ma almeno fa qualcosa.
Sono grigio fuori e ho freddo dentro e a momenti vedo tutto in bianco e nero. Sto andando a fare un colloquio in periferia, in una zona di palazzoni grigi e anonimi peggio delle case popolari della Germania Est.
Mi sento vuoto, nudo, senza scopi. Cammino come un morto senza badare a nulla, appena arrivo sulla metropolitana mi rintano nell’angolo in fondo cercando di occupare il posto in modo che non mi si sieda nessuno vicino.
Non è scortesia, non voglio nessuno. Non voglio sentire odori, sapori, profumi, nulla. Mi sento già abbastanza desolato e vuoto di mio.
Il treno parte ma non lo sento, mi accorgo del viaggio solo perché vedo le rotaie che scorrono fuori dal finestrino.
Fisso le rotaie che accelerano, rallentano, si fermano in maniera monotona e ripetitiva.
Perché sto facendo questo? Perché mi sto forzando ad andare a un colloquio di lavoro per un posto che non mi piace a fare un lavoro che non mi piace?
Per i soldi.
Per il superfluo.
Per potermi permettere cose che mi sopravviveranno dopo morto.
Il pensiero mi sta mettendo ansia. Distacco lo sguardo dalle rotaie, inizio a guardarmi in giro per il vagone: vedo gente attaccata allo schermo del telefonino in maniera ipnotica e ripetitiva.
Non interagiscono, fissano lo schermo come tossici, e io mi rendo conto di essere uno di loro, uno zombie senza speranza.
Quando ho iniziato a essere così? Quando ho smesso di guardarmi in giro per essere un tossico di schermi lcd e diventare uno zombie uniformato?
Non lo so. Forse è stato tre giorni fa, forse mesi fa, forse lo sono da sempre con altri strumenti e mi sono solo illuso di essere differente.
Spengo la musica che mi isolava, metto il cellulare in tasca e cerco di guardarmi in giro senza pensare troppo. Voglio vedere cosa succede.
‘prossima fermata…’
Ecco l’annuncio della voce impersonale e computerizzata della metropolitana, era tanto che non lo sentivo.
‘…MORTE’
Scusa?
‘prossima fermata: MORTE’
Non è possibile. NON LO E’.
Arriviamo alla fermata e non c’è nulla che dia nell’occhio, nulla di strano, non fosse altro che è la fermata dove devo scendere.
Appena arrivo in superficie raggiungo velocemente la zona dove devo tenere il colloquio, ovvero una zona di enormi parallelepipedi grigi. Non me l’aspettavo così aliena e disumana, questa è veramente la morte cerebrale, altro che design.
Mi fermo per un attimo, mi chiedo se veramente voglio fare tutto questo. Se veramente ha senso buttare via la propria esistenza per il superfluo e l’inutile chiudendosi in un cazzo di parallelepipedo di cemento da cui ne uscirai vecchio e malandato.
No.
Non ha senso.
Quasi quasi torno a casa, me ne frego a comincio a vivere.
Magari mi trasferisco in campagna, anzi, inizio a fare come qualche amico che ha venduto tutto e si è trasferito all’estero.
Mi mancherà la mia città natale, è vero, ma almeno non rimango chiuso in una bara di cemento armato fino a che non sarò troppo malato per lavorare.
Vaffanculo al colloquio, vaffanculo al lavoro. Viva la vita.
*stridore di gomme*
Non so.
Mi sento un sapore di ferro in bocca, mi fa male la schiena, chi cazzo mi ha spinto per terra?
Mi fa male anche la testa, ora che ci penso .
Però, in tanto grigio e col mio vizio di guardare sempre per terra mica mi ero accorto che oggi il cielo è azzurro.
È completamente terso e non c’è nemmeno una nuvola in cielo.
Un cielo così non è facile vederlo in città.
È talmente azzurro che fa male agli occhi.
Talmente azzurro che non vuoi guardare altro, per sempre.
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