È una giornata terribile, oggi.
Mi sento stanco, stressato, vorrei dormire, vorrei morire pur di non sentire più nessuno rompermi i coglioni.
Mi guardo in giro e vedo tutti che stanno meglio di me: fighi, snelli, con figli, roba da mulino bianco, palestrati, giovani, interessanti, social, ben vestiti…tutti molto migliori dei miei jeans sdruciti e lisi e della mia maglietta nera che ha sicuramente visto tempi migliori.
Ci ho provato a vestirmi bene, mi hanno pure detto che mi donava, ma alla fine me ne sono sempre fregato. Do molta più importanza alla persona che all’esteriore, ma non posso fare a meno di essere colpito da come la gente si veste e come si comporta e, a parte rarissimi casi, li trovo interessanti anche se completamente anonimi e uniformati.
mi siedo sul bus e lascio che il tramonto illumini l’umanità e la piccola parte di città che mi scorre davanti; a ogni fermata sale e scende gente, storie, fighi e fighe, ma a un certo punto il bus resta fermo con le porte un po’ troppo.
Sto già imprecando, e con me altri. Vogliamo tornare a casa presto, cosa sono queste fermate di tre minuti che non siano semaforo?
La mia domanda riceve una risposta quando vedo che in mezzo al bus si fa largo una carrozzina elettrica con un ragazzo sulla ventina adagiato sopra. Non è il tipo di disabile incosciente che si sbava addosso, questo deve avere seri problemi alla colonna vertebrale ed è costretto lì sopra probabilmente da che è nato. La cosa che mi colpisce è la faccia contrita che ha, quasi fosse dispiaciuto e si sentisse di peso per essere in quella condizione. Ad accompagnarlo c’è una donna che credo sia la madre: non c’è somiglianza ma ha circa il doppio degli anni e ha una faccia stanca e scavata. A ben guardarli mi ritengo diecimila volte più fortunato e, benché giri subito lo sguardo per non destare imbarazzo nel giovane visto che tutti lo stanno fissando come fosse un’attrazione da circo, sospiro e non mi sento più tanto peggio. Sono in salute e cammino dopotutto, e sono cose che uno da per scontate ma che, di fronte a queste botte di realtà non lo diventano affatto.
Dopo qualche altra fermata e a mano a mano che il bus si svuota mi accorgo di una donna seduta con un foulard in testa: i tratti della chemioterapia.
Sono in bus chiuso tra modelli di Abercrombie, Hipster, malati più o meno cronici o terminali e vecchi che si portano dietro degli zaini di cartelle cliniche e il loro carico di disagio e malattia.
Improvvisamente, odio i fighi e mi sento più vicino a gente che sta peggio di me. non so se sia empatia, senso di colpa o che ne so, fatto sta che fortunatamente non sono lontano da casa e scendo dal bus.
Respiro a pieni polmoni la merda di aria della città, volo a casa, mi chiudo dentro e prima ancora di cucinare o mangiare qualunque cosa mi vuoto un bicchiere di whisky.
Sono più calmo, anche se non riesco a non pensare alle facce della donna e del ragazzo sul bus. Io sto bene, lui no, forse è meglio che metta un po’ in prospettiva le lamentele spesso inutili che ho.
Mi verso un altro whisky, apro la borsa del lavoro e guardo gli esami ritirati la mattina: ho la cirrosi, non devo bere e sono in attesa per un donatore di fegato, però…
Non voglio vivere da malato.
Non voglio essere triste.
Non voglio essere di peso.
Alla salute.
Nessun commento:
Posta un commento