Un posto enorme, con la musica diffusa ad un volume alto anche se non assordante; tutta la gente che affolla il capannone è mascherata e con un enorme voglia di fare festa. La metà sono ubriachi e fumati, l’altra metà è sobria ed ha solo voglia di divertirsi bevendo una birra od un drink in più del normale. La postazione del dj è alzata di circa tre metri ed è contornata da una balconata popolata da varie ragazze immagine che si muovono a ritmo di musica, le casse sono poste poco al di sotto della stessa ed emanano oltre alla musica un calore quasi insopportabile. Ai lati della sala da ballo ci sono vari chioschi che vendono bibite ed alcolici, tutti rigorosamente in bicchieri o bottiglie di plastica per evitare che diventino armi improprie. Proprio quest’ultimo pensiero gli affolla la mente. Non è venuto con nessuno, se ne sta li da solo appoggiato al bancone fissando la sua bottiglietta di plastica di Smirnoff Ice lasciando che i pensieri fluiscano liberamente nel suo cervello e lo attraversino senza lasciare traccia. Ogni tanto alza pigramente la testa, si guarda in giro ed osserva il resto della gente: per non si sa che motivo quella folla lo disgusta, ma anziché uscire se ne rimane lì ed ordina al volo un altro drink. Beve con calma, continuando a guardarsi attorno osservando attentamente la gente che passa, quella che balla e si diverte e persino le coppie che negli angoli di quell’immenso capannone si lasciano andare a varie effusioni, da quelle più romantiche a quelle più spinte. Vedere due persone che si baciano è una cosa che lo tormenta e lo disgusta. Gli è successo l’ultima volta tanto tempo fa e se l’è lasciata sfuggire. Si sta per chiedere perché ma lo sguardo gli cade dritto davanti sullo specchio dietro al bancone che sta riflettendo la sua immagine: trasandato, barba incolta, solitario…non regge quella vista, prende la bottiglietta di plastica di quella specie di bibita alcolica che stava ancora sorseggiando, la stritola, la sbatte violentemente dentro ad un cestino ed esce.
Fuori è freddo e spira una leggera brezza che lo coglie impreparato. Quel venticello tagliente che scende dalle montagne circostanti e che da la sensazione netta di tagliarti la faccia gli sta spirando dritto addosso avvolgendolo completamente e dandogli il classico brivido che sale per la spina dorsale. Si allaccia il cappotto lurido e consunto, si stropiccia gli occhi e inforca gli occhiali. Si da uno sguardo in giro per vedere cosa ci sia, ma a parte qualche ubriaco che sta vomitando accucciato nell’atrio di un portone e una miriade di bicchieri e bottiglie di plastica calpestate non c’è nulla. Si sente appena la musica che stanno suonando all’interno del capannone ma non si riesce a distinguere nulla perché il suono è molto ovattato e quindi incomprensibile. Rimane fermo a guardarsi attorno girando su se stesso, poi decide che non c’è più nulla per cui valga la pena restare e si incammina verso l’auto. Percorre qualche isolato a piedi circondato dal silenzio più totale e dalla lontana eco di qualche sopradico urlo dell’ubriaco di turno. Inizia a fischiettare una dolce melodia non prima di essersi alzato il bavero del cappotto per ripararsi dal freddo; si guarda continuamente in giro con circospezione come se avesse paura o se aspettasse di incontrare qualcuno che puntualmente non arriva. Continua a camminare, prima sulla strada asfaltata e poi sullo sterrato dell’enorme parcheggio dove ormai è rimasta solo la sua auto, un vecchio maggiolino bianco bottato da tutte le parti e con tracce di ruggine qui e là. Apre la porta che rumoreggia cigolando e sale, fa cigolare anche il sedile ormai sfondato e logoro e richiude la porta che produce un tonfo sordo e particolare. Si china in avanti e, frugando sotto il sedile del guidatore, ne estrae il frontalino dell’autoradio, lo inserisce e l’accende. Una romantica sinfonia di Beethoven si propaga per tutto l’abitacolo con un suono perfetto, merito dell’impianto autoradio curato nei minimi dettagli. Accende il motore che romba sordo ed irregolare, inserisce la prima a fatica e parte. Esce da quel paese sconosciuto un po’ a fatica a causa del fatto che non conosce le strade, ma fortunatamente qualche cartello indicante tutte le direzioni riesce ad aiutarlo a sufficienza. Improvvisamente si ritrova su una statale a due corsie ampia ed abbastanza anonima; oltre alla musica non si sentono altri rumori e dopo aver dato una rapida occhiata al retrovisore si rende conto di essere completamente solo. Non solo in auto, ma anche fuori in strada non c’è l’ombra di una macchina per chilometri. Scuote il polso per aggiustarsi l’orologio e guarda l’ora: le quattro e mezza. Sarà che per la ‘gente normale’ tornare la domenica notte a quell’ora è assurdo, ma per lui oltre che essere perfettamente normale è una cosa che lo manda in paranoia facendolo riflettere sulla sua solitudine. Le quattro e mezza…e tra due ore ha la sveglia per andare a lavorare…in quella fabbrica di merda, quel lavoro di merda…e fuori questa vita di merda. Improvvisamente un’idea gli balena nel cervello: sparire. Dopotutto non ha nessuno, gli amici si accorgerebbero della sua scomparsa dopo almeno due settimane, e il lavoro...beh, chi se ne frega. Quello che era e doveva rimanere un pensiero fuggente è stato carpito ed imprigionato nel suo cervello grazie anche all’aiuto delle strisce discontinue della strada che su di lui hanno un effetto ipnotico. Inizia a pensare se sparire subito o tra qualche giorno, a come organizzarsi e dove andare, l’itinerario da seguire...d’un tratto si blocca: sta pensando troppo, e questo tipo di cose dovrebbero essere istintive. Beethoven continua a fargli compagnia riempiendo di note l’abitacolo e sovrastando completamente il rumore del motore e la cosa sembra fargli particolarmente piacere, inizia a martellare dolcemente il volante a tempo di musica con indice e medio della mano sinistra mentre fischietta le sinfonie che l’autoradio gli propone. Non manca molto a casa sua e la cosa viene ribadita da un cartello a lui molto familiare che indica uno svincolo poco distante; un comunissimo cartello di pericolo situato a lato della carreggiata, piegato che sembra quasi stia per cadere, invece testimonia un uscita di strada di qualche tempo prima. La sua. Ogni volta che ripassa da quel punto non riesce a non pensare a quella serata per lui da dimenticare nel modo più assoluto. Umiliato e offeso dalla persona a cui teneva di più si sentiva come se lo avessero spogliato e picchiato in pubblico. Girò cinque o sei bar e continuò a bere per dimenticare l’accaduto peraltro non riuscendoci. Verso le cinque di mattina prese l’auto ancora completamente ubriaco e tornò a casa. Ricorda ancora che nell’autoradio c’era il ‘Barbiere di Siviglia’ di Rossini e che poco prima di quella curva si stupì di riuscire a guidare tanto bene. Dopo un paio di secondi vide il cartello, poi il nulla. Si svegliò in auto dopo un’ora con la faccia insanguinata e il braccio destro dolorante; la macchina non si sa come funzionava ancora, e lui, pur essendo completamente rintronato, la accese e tornò a casa come nulla fosse. Arrivato a casa si infilò direttamente sotto la doccia e si mise a letto. Si svegliò il giorno dopo ricordando a malapena l’accaduto sicuro che si trattasse di un sogno, ipotesi che gli venne smentita quando vide la macchina in giardino completamente ammaccata. Stavolta però è diverso; è abituato a stare solo da un po’, non è tanto ubriaco e cosa non meno importante non ha Rossini tra i cd del caricatore.
Arriva al bivio che conduce a casa sua, pensa per l’ultima volta ad attraversare il confine e sparire all’estero e poi prende a destra per casa sua. Nemmeno cinque minuti ed è arrivato, dalla strada principale gira a destra in un vialetto asfaltato trent’anni prima e mai rattoppato e poi di nuovo a sinistra nel suo cortile stando bene attento a non prendere le varie buche davanti a lui sul terreno fermando la macchina senza manovrare quasi al centro del piazzale. Spegne l’autoradio e scende dalla macchina, dopodiché si guarda intorno: è al centro di un cortile di terra battuta completamente circondato da un cascinale semi abbandonato. Semi perché l’unico abitante rimasto è lui, le altre famiglie o non ci sono mai state o sono andate via molto tempo prima. Guarda il cielo stellato con particolare attenzione verso le nuvole trasportate dal vento. Resta qualche minuto a fissarle dopodiché chiude gli occhi sempre tenendo la testa in alto per ascoltare il fischio del vento attraverso i fienili abbandonati e le crepe nei muri della cascina. Li riapre, chiude l’auto, le tira un calcio sul paraurti anteriore e si dirige a destra verso la sua abitazione. Dall’esterno il cascinale sembra completamente abbandonato e l’unico segno di presenza umana costante sono le varie crepe stuccate maldestramente nel corso degli anni e i recenti allacciamenti di telefono e corrente, visibili solo per i cavi palesemente moderni. Sale una rampa malandata di scale facendo attenzione a non cadere, cerca a tentoni la toppa della chiave, dopodiché da due mandate di serratura in maniera energica e la porta della sua abitazione si apre. Allunga la mano verso sinistra ed accende la luce: a confronto con l’esterno, l’interno è completamente diverso, come entrare in un’altra dimensione. Due faretti alogeni intelligentemente piazzati agli angoli delle pareti vicino al soffitto illuminano a giorno lo spazioso ingresso. Le pareti sono perfettamente lisce e imbiancate nei colori più impensabili: rosso, arancione, blu e verde, mentre il pavimento è uguale per tutto il resto della casa, bagno e cucina a parte: si tratta di parquet di frassino perfettamente tirato a lucido coperto qui e là da tappeti rossi di foggia orientale. Si pulisce le scarpe sullo zerbino prima di entrare e varca la soglia, chiudendo la porta blindata alle sue spalle con un tonfo leggero ma sicuro. Quel tipo di porta gli è costata un patrimonio di fatica, soprattutto il portarla via dalla città per farsela montare in quel posto sperduto da Dio; infatti benché una porta di quel tipo in un paese simile non abbia senso averla per lui che viene dalla città è una sicurezza psicologica non indifferente.
Per prima cosa si toglie scarpe e calzini, poi si dirige in salotto e prende il telecomando dalla libreria dietro il divano blu notte che domina la stanza, accende l’hi-fi situato di fronte allo stesso e alza un po’ il volume: pur avendo un ottimo impianto di diffusione in tutti i locali, stasera ha voglia di sentire la musica un po’ più alta. Potrebbe anche sentirla a tutto volume, tanto nessuno gli darebbe il minimo disturbo, l’abitazione più vicina è a mezzo chilometro.
Si avvicina all’ hi-fi, lo accende e infila un cd a caso dei tanti che si trovano disordinatamente impignati per terra a fianco dello stereo, ne infila uno e schiaccia il bottone ‘play’. Non poteva capitargli cd peggiore per il suo stato d’animo: ‘Wish You Were Here’ dei Pink Floyd. L’aver selezionato la riproduzione casuale dei brani (‘ti fa riscoprire i dischi’ diceva sempre) non lo aiuta molto, infatti il primo pezzo ad essere mellifluamente diffuso per la casa è proprio il pezzo che da il titolo al disco. Appena riconosce le note fissa con uno sguardo storto il soffitto e come se parlasse con dio esclama ‘me lo fai proprio apposta, eh?’ dopodiché si dirige verso il mobile bar, estrae una bottiglia di vodka e ne versa un buon quantitativo in un bicchiere allungandola con del succo d’arancia. Prende il bicchiere in mano e inizia a passeggiare per la casa, da stanza a stanza, da parete a parete e da colore a colore. Si sofferma in un collage di foto varie incorniciato con una dedica scritta a penna dalla persona ritratta: ‘Non ti scrivo niente, tanto lo sai!’ seguita dalla firma. La persona in questione è una ragazza alta circa un metro e sessanta dal fisico minuto e snello, con due occhi scuri e profondi e i lineamenti del viso molto dolci ingentiliti maggiormente dai capelli rossicci che le cadono sulle spalle contornandole il volto. In quella cornice ci saranno circa una ventina di foto ma solo in un paio sorride. Nelle altre ha un’espressione dolce ma inquieta, come se una spada di damocle le stia per cadere sulla testa da un momento all’altro. Dopo aver fissato meticolosamente tutte le foto di quello strano collage si stropiccia gli occhi, butta un’occhiata verso il soffitto e si gira ad osservare il resto della stanza. Il posto dove si trova ora è la camera da letto: le pareti sono completamente dipinte di blu scuro, il soffitto è dello stesso colore e il pavimento è di parquet scuro con due tappeti-scendiletto ai lati del letto matrimoniale che giace dalla parte opposta dell’ingresso della stanza; un letto grossolano e massiccio fatto in legno di noce alto poco più di cinquanta centimetri da terra con i comodini a fianco della medesima forma e colore. Dalla parte sinistra del letto c’è una finestra con serramenti in alluminio e doppi vetri mentre dalla parete opposta un monumentale armadio alto circa tre metri sembra sia in attesa di essere aperto per poter svelare i propri segreti. Dopo aver osservato meticolosamente tutta la stanza si avvicina alla finestra e guarda il cielo: è sereno, con le nuvole spazzate dal vento che lo sporcano di tanto in tanto mentre il chiarore annuncia che tra poco sarà giorno: un’altra notte insonne. Abbassa lo sguardo e osserva il cortile brullo e desolato con al centro il suo malandato maggiolino, ma prima di poter pensare qualunque cosa nota attraverso il riflesso del vetro un oggetto della stanza a cui non aveva fatto caso prima. Si gira di botto e lo squadra dapprima da lontano, poi si avvicina al letto e lo afferra: è una cornice d’argento posata sul comodino con dentro una foto della stessa ragazza ritratta nelle altre foto del collage da lui osservato prima. In questa foto però è molto diversa: è biondissima e il viso è molto più rilassato, lasciando trasparire la sua felicità interiore. È vestita di nero ma il colore scuro non fa altro che farle risaltare il sorriso, è per quello che adora quella foto e ha voluto tenersela sul comodino.
‘Ciao Tiziana…come va? Spero che tu te la stia passando meglio di me, ma non credo…Ti voglio bene…anzi…magari ad un’ora migliore ti chiamo…’
Ripone accuratamente la cornice, la lucida togliendogli le ditate e torna in soggiorno, apre la porta finestra e la spalanca, si sdraia sul divano blu di fronte ad essa e guarda il sorgere del sole.
‘Ecco. Tra poco sorge il sole…e sarà il dolore di un nuovo giorno’.
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