Dedicato ad Alessandra
(Colonna sonora: Are You There?)
Guardo l’orologio del pc che segna le 19:48. Fuori è buio, il sole è tramontato da un pezzo, è febbraio, tira vento e io sono ancora in ufficio. Un po’ ho arretrati da sbrigare, un po’ bisogno di soldi e un po’ non ho voglia di rincasare perché in questo periodo mi sento terribilmente solo.
Dopo sei mesi mi ritrovo a vivere una vita, la mia, che sento vuota, inutile, noiosa. L’ho voluta io e me ne sono preso responsabilità e doveri, compreso un bel divorzio sul groppone che pesa come il mondo sulle spalle di Atlante.
Mi ritrovo ad aver fatto tutto quello che mi ero prefissato nel bene e nel male, ho dimostrato a me stesso di essere in grado di fare tante cose, di sopportare certe pressioni e fasi di depressione che non pensavo di riuscire a sopportare.
Mi ritrovo alla fine di questo percorso stanco, chiedendomi cosa c’è dopo.
Intanto ho perso il conto dei minuti. Guardo l’orologio: ne ho persi dieci.
E vabbè, straordinario pagato. Chiudo il pc, mi alzo, mi infilo il cappotto ed esco. Fuori tira vento e fa freddo e il mio cappotto, pur essendo un bel residuato bellico di pura lana, non mi protegge dall’umido e mi lascia intirizzito, quindi l’unica cosa decente che mi viene da fare è accelerare il passo fino alla metropolitana. Guardo il cielo spazzato dal vento, è limpido e cristallino. Una falce di luna illumina benissimo la sera e io non ho voglia di nulla. Voglio tornare a casa, ficcarmi sul divano e rimanere lì, in silenzio, annebbiandomi davanti alla Tv.
Giunto alla mia fermata trovo il solito deserto misto panorama alieno. Mi guardo intorno e non c’è veramente nessuno. Il freddo e il vento li ha fatti rincasare tutti presto. Se possibile sono ancora più infreddolito, alzo il bavero del cappotto e mi incammino verso casa. Non sento niente, ho un pezzo industrial nelle orecchie a volume da denuncia, una delle poche cose che mi permettono di non pensare a nulla, perché non voglio proprio farlo. Tempo fa avrei dato retta a chi mi diceva di sbronzarmi ma ho scoperto che il trucco non regge: il giorno dopo i problemi o i pensieri ci sono e sono anche peggiori, amplificati e con l’aggravante di mal di stomaco e mal di testa.
Decisamente ormai la cosa non fa più per me, visto che sono arrivato a pesare meno di quando facevo le superiori e il fisico ne ha risentito in maniera a dir poco positiva.
Qualcuno mi ha detto che alla fine ho fatto moltissimo, ma per me il ‘moltissimo’ non è mai abbastanza, non lo è mai stato. Mentalmente non mi sono mai accontentato di nulla. Avevo interi universi nella testa e non riuscivo a descriverli, a esprimerli o a parlarne con chi avevo di più caro.
Ed ora, in questo periodo, non riesco nemmeno a raccontarli a me stesso.
A casa è caldo. Apro le finestre, cambio l’aria, richiudo quasi subito, guardo ancora il cielo. È bellissimo fuori. C’è il vento, è magico. È il messaggero supremo, quello che mi hanno detto le rune. E allora, per una volta, decido di uscire ancora. Fa freddo, sopporterò.
Chiudo la porta e mi rendo conto che sono rimasto a casa sì e no dieci minuti. Il tempo di posare il libro che leggo in metro e un disco arrivato in ufficio che non so quando ascolterò. Se possibile fuori tira un vento ancora peggiore, non ho l’auto per cui vado alla fermata del tram.
Anche qui, nessuno. Il display della fermata segna 5 minuti di attesa. Aspetto, infreddolisco, aspetto, il tram arriva, salgo e mi svacco fino alla fermata del pub.
Scendo, percorro duecento metri e mi fermo. Ho veramente voglia di bere e vedere le solite facce? Non sono di compagnia, non voglio vedere nessuno né parlare. E non voglio bere fino a stare male.
Giro i tacchi, decido per tornare a casa. Alla fermata siamo in due: io e una ragazza. È alta, carina, vestita militare.
Guardo lo schermo e vedo che segna dodici minuti. Bestemmio. Lei ride poi mi domanda:
‘Perché?’
Rimango istupidito. Non che mi freghi granché ma la domanda mi spiazza forse perché non me la sono mai posta veramente.
‘Già, perché?’ rispondo in modo automatico.
‘L’ho chiesto prima io’.
‘Sì, scusa. È che non ho una risposta.’
‘Beh, allora non farlo, no?’
‘Per caso credi in dio?’
Mi guarda stupita.
‘Chi, io?’
‘Beh, non c’è nessun altro, qui’.
‘No, io non credo in nulla, ma credo che se non credi non ha senso e se credi…ne ha poco lo stesso. A meno che non vuoi fare l’adolescente grosso’.
Rimango zitto. Guardo il quadrante. 11 minuti.
‘Faccio presto a congelare, qui’.
‘Non solo tu. Il freddo lo sento pure io.’
E due. Simpatica come una merda pestata coi sandali, questa.
10 minuti. Forse arriviamo a nove tra poco.
‘Beh, ti si è cucita la lingua?’
‘No, non so cosa dire, a dire il vero’.
‘Come ti chiami mi pare un inizio. E non pensare chissà cosa, ammazziamo il tempo’.
‘Daniele.’
‘Martina’.
Mi stringe la mano, forte, decisa, fissandomi. È una stretta calda, non saprei come altrimenti descriverla.
‘Sei sempre così cupo?’
‘A volte anche peggio. Io sono un incontentabile. Ma in questo periodo diciamo che non sono proprio un fiore, anzi’.
Subito dopo mi chiedo perché gliel’ho detto. Forse è più facile aprirsi con gli estranei?
‘E per essere un fiore cosa vorresti?’
Mi guarda sinceramente incuriosita. Forse averla a letto mi farebbe felice. Ma non mi basterebbe, ho già dato e so che anche quello fa parte dell’effimero.
‘Non lo so.’
‘Scusa, ma non è possibile. In fondo al cuore ognuno di noi SA cosa lo rende felice. E lo sai anche tu’.
‘Non saprei, mi sento molto...strano. Ma scusa, a te cosa rende felice?’
‘Non parliamo di me, Daniele. Ho chiesto a te. Ma se vuoi uno spunto…per me è amare, senza essere ricambiata.’
Rimango fermo a fissarla, è seria.
‘Ma non è doloroso?’
‘A volte sì. Molte altre, perché l’amore è fatto di tante cose, è bellissimo.’
‘Vorrei poter amare.’
‘Hai un’età in cui sai che lo sai fare. È il verso chi che hai sbagliato. O, a volte, il come lo hai fatto.’
‘Ho sbagliato tutto, mi sa.’
‘Tutti sbagliamo. Nessuno fa sempre tutto giusto. L’importante è rendersene conto, riparare se riesci, chiedere scusa, o lasciare andare e continuare.’
‘La fai facile, tu.’
‘Mai detto lo sia.’
Sei minuti.
Mi piace, Martina. Vorrei rivederla. Vorrei parlarci. Vorrei passarci un pomeriggio, correre nei prati a piedi scalzi con lei fino a piangere. Mi mette pace, non saprei come altrimenti descriverla.
‘Senti…non sono il tipo che…’
‘No, il numero non te lo do, ma possiamo rivederci domani al pub, è da lì che venivi, vero?’
‘Sì.’
‘Alle sette, allora.’
Continuiamo a parlare, il tram arriva, io scendo e lei continua la sua corsa. Arrivo in casa, do una bottarella alla caldaia, mi lavo e mi siedo sul letto: mi sento eccitato, euforico. Martina non è nessuno, è solo una nuova conoscenza, ma in questo periodo ne ho bisogno. È qualcosa di nuovo, qualcosa che mi può permettere di ricominciare a guardare fuori dalla finestra, rivedere il sole, sorridere non dico alla vita ma alla primavera che arriva.
Mi infilo sotto le coperte, inizio a sentire caldo ma sto bene. Una volta tanto qualcosa di inaspettato in una vita prevedibile.
Che bello.
Daniele si addormentò sereno e speranzoso ma non si svegliò più. Martina, la ragazza della fermata, era solo un dialogo nella sua testa, la speranza di un morente.
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