giovedì 27 febbraio 2020

SOVRAPPENSIERO

C'è almeno una strada che si fa sovrappensiero
Alle processioni si va sovrappensiero
Tutte le ossessioni sono un sovrappensiero
Quello che non faccio è sovrappensiero
Ai funerali si va sovrappensiero
Una canzone serve al sovrappensiero


E grazie al cazzo, Bluvertigo, mi dico, quello che non faccio è sovrappensiero, e me lo dico mentre cerco invano di farmi una doccia decente con le saponette dei puffi di un albergo.

Mi fanno compagnia solo Spotify e i miei auricolari Bluetooth: sono l’unica ospite di un hotel che quello di Psycho in confronto è la casa di Barbie, ho freddo, perché qui il freddo e il vento non sono un modo di dire, e ho fretta e l’acido che preme nello stomaco. Mi guardo vestirmi di fretta con le dita intirizzite dall’aria gelata, controllare le scartoffie, telefonare in fretta alla famiglia, quella di sangue e quella scelta, rassicurare con quattro cazzate sul viaggio della speranza che mi sono sparata ieri sera ed è andato benone e sul fatto che va tutto bene, tranquilli, shtat’ senza pensieri, e poi mi osservo mentre scendo le scale della hall e mi sparo una fetta di Gubana per colazione di fronte al banco delle grappe.

Questo è quello che faccio, roba inutile e banale. E quello che non faccio, il sovrappensiero, cos’è?
La bussola che mi porta in via Giacobbe meccanicamente, calpestare con i miei anfibi taglia 41 la ghiaia che prendevo a calci quando portavo ancora le treccine e la casa che sto andando a vendere era ancora piena. Di vita, di noialtri, di voci relativamente amiche, di oggetti, di storie. Sono ancora giovane, sono ancora viva, e Casarsa è morta insieme a mia nonna e a mio nonno: sto andando a vendere la loro casa, per favore, paciugo, vai tu? Non ce la faccio, ha detto mia madre, e che deve fare il figlio minore, il bastone della vecchiaia? Allacciarsi le scarpe e camminare, anda, passi lunghi e ben distesi.

A metà strada mi fermo a comprare un meritatissimo pacchetto di MS rosse, quelle del nonno, dal tabaccaio dove lavorava la mamma da ragazzina prima di salire sullo stesso treno su cui ho posato il culo poche ore fa. E ce la vedo, al posto della lurida di oggi, a vendere le sigarette a sua figlia, giovane e bellissima, senza sapere che sta vendendo chiodi di bara a me e avere voglia di ammazzarmi. Rido, compro anche un Bic e mi concedo di fumare per strada, tanto non c’è più nessuno a cui raccontare che non sono una brava putea: non c’è neanche la putea, c’è una donna di 40 anni con un mazzo di chiavi in tasca che pesa come un macigno e la responsabilità di tagliare il cordone ombelicale con una regione intera.

La putea l’aveva subodorata con fin troppo anticipo, la puzza di merda: 5 anni, un’estate in Friuli tra gatti, vespe, il pozzo artesiano tirato su dal nonno e la sua acqua gelata anche senza frigorifero, arriva il momento di salutare e mi metto a piangere, dico, li lasciamo soli, forse è l’ultima volta che li vediamo, e vedo i miei genitori che dicono ma no, non è l’ultima volta che li vediamo, e cercano di rassicurarmi.
La donna di 40 anni la puzza di merda e di morte la respira a pieni polmoni: non c’è nessuno a dirmi che non è l’ultima volta che apro questo cancelletto arrugginito, perché è davvero l’ultima volta che lo faccio. 

Entro. I mobili sono spariti, i primi quadri di mia madre anche, i libri pure, non so dove siano, credo svenduti a qualche rigattiere e pronti a essere osservati al mercatino delle pulci della domenica da persone che forse si chiederanno da dove arriva l’atlante delle piante del Bruno, di chi era prima di arrivare su quel banchetto in mezzo a tanti altri e forse no. Non ci posso fare niente, tutto già fatto, tutto già deciso, posso solo consegnare le chiavi e vagare per questi dieci minuti che mi restano per muri dove l’alone lasciato dai quadri sulle pareti è la sacra sindone di una famiglia.

Quanto vorrei quel Reader’s Digest Horror del Bruno pieno di racconti che mi tenevano sveglia. Fatti curiosi ed incredibili, diceva: il punto è che la putea ci credeva, e io non ci credo più, a queste cose, perché me le invento. Ma allora i fantasmi, gli assassini e le apparizioni mi facevano compagnia durante i pisolini pomeridiani altrui, quando ero l’unica sveglia in tutta la casa, e terrore di notte, quando mi ritrovavo mio malgrado nella stessa situazione.

Chiudo non senza sforzi mostruosi il pozzo artesiano sapendo che non tirerà mai più, fottetevi, nuovi inquilini, l’acqua buona te la devi meritare, vado al piano di sopra, apro le finestre per l’ultima volta, saluto la palma piantata dal nonno Toni in onore di sua moglie Palmira. La taglieranno, ma lei non lo sa, è una pianta. 

L’ultima volta che sento quel campanello, la prima e ultima volta che incontro il notaio e i nuovi inquilini, giovani, cretini, più veneti che furlani, già pronti a dirmi cosa sfasceranno, cosa ricostruiranno, cosa cambieranno, e sovrappensiero sostengo una conversazione brillante, faccio battute, intrattengo il pubblico per nascondere che io, quando morirò, morirò di nostalgia.

E il resto? Il resto è andarsene senza voltarsi, perché va bene che morirò di nostalgia ma l’orgoglio è l’orgoglio, brava, a testa alta, sempre, diceva il Toni quando cadevo dall’altalena e non piangevo. Non piango mentre faccio il check out dall’albergo, mentre bevo l’ultima sgnapa nell’unico baretto della piazza e mentre saluto Villa Monin: testa alta in corriera, testa alta sul treno, testa alta a Venezia Mestre mentre aspetto il Frecciarossa per Milano col vento che mi prende a schiaffi e l’umido che mi entra nelle ossa, testa alta pure in metropolitana con la tristezza che dalle ossa è arrivata al midollo, testa alta sulla strada della mia casa-casa di oggi, un’altra strada che faccio sovrappensiero.

Le chiavi nella toppa, la luce accesa, le feste del cane, lui sul divano, l’odore dell’incenso nell’aria insieme a Bitches Brew e Giulio con qualcosa di nuovo e familiare in mano.

Mi si gela il sangue.
Fatti strani ed incredibili.

- Bello, dove l’avevi comprato questo?

Che dire, forse la putea aveva ragione a crederci, nell’incredibile. Io minimizzo, invento una storia sul Libraccio sul naviglio, quello da 3 euro, chiamo mamma, scopro che senza alcuna logica il pozzo artesiano è rimasto aperto, quelli nuovi sono contenti, aaaah che bello, bla bla bla, ma non ascolto.
Ceno, ma non ci sono.
Sto solo aspettando che Giulio si addormenti, prima di me, come sempre, voi allodole e io gufo, per aprire quel libro. 
Una dedica a biro, tremolante, in stampatello: A TESTA ALTA.

Mi verso un dito di grappa e sorrido. Non c’è niente da fare, io morirò di nostalgia, ma forse ritornerò anch’io a farvi un regalo. O forse no.
Sovrappensiero.

Racconto di Santanico Pandemonium

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