‘E’ inutile, oggi non riesco a combinare niente!’, pensa lasciandosi sfuggire un mezzo sospiro, un po’ stizzito e un po’ stanco. ‘Sono 20 minuti che rileggo sempre la stessa pagina...meglio se gliela dò su. Si guarda intorno; il tavolo di legno chiaro, lo stesso dell’infanzia, e’ stracolmo di libri, fotocopiati e rilegati con cura, tutti con uno spessore inquietante. Un paio di quaderni ricoperti da una grafia abbastanza ordinata e leggermente sbilenca si tengono in precario equilibrio vicino a una bottiglia d’acqua piena a metà e un bicchiere di vetro. Per completare l’atmosfera, un astuccio made in Tibet a strisce colorate, di quelli che si comprano solo nei negozi del commercio equo solidale, si apre sorridente a mostrare la gran quantità di penne multicolori, matite, gomme, e perfino una pallina di quel materiale indefinibile che compri ai distributori automatici e che, quando le butti per terra, fanno dei rimbalzi incredibili. Un discreto caos. Ma oggi proprio non e’ giornata. ‘Certo che se sono così di lunedì, figuriamoci sabato...cazzo, mancano solo 10 giorni allo scritto..’, si alza e comincia a girare per la stanza, giusto per scaricare un po’ la tensione. Prende un cuscino dal letto, lo sposta e lo rimette al suo posto, controlla che il livello di polvere degli scaffali non abbia superato la soglia del pericolo, poi viene l’ispirazione improvvisa: apre l’armadio, legno chiaro anche quello, pieno di tutto anche quello, fruga un po’ e poi riemerge con quello che cercava. Si siede per terra a gambe incrociate e si mette sulle ginocchia quello che ama chiamare ‘il magazzino dei ricordi’. Non e’ nient’altro che un vezzoso beauty-case orlato di cotone rosa e decorato con fiorellini bianchi, gialli e rosa, ma come spesso capita, la confezione non lascia trasparire minimamente l’effettivo contenuto. Apre il beauty-case e si ritrova fra le mani una discreta quantità di carta. Sono lettere, bigliettini, alcune fotografie; tutto e’ disposto secondo un ordine logico, il più semplice probabilmente, cioè secondo la persona che ha scritto quelle lettere o quei bigliettini.
La gente probabilmente pensa agli anni del liceo in modi radicalmente diversi. Per alcuni sono anni di cazzeggio assoluto, passati a fare il minimo indispensabile e cercando in tutti i modi di divertirsi. Quasi tutti hanno avuto almeno una gita scolastica in cui si sono ubriacati in compagnia in una stanza d’albergo, si sono persi in una città straniera senza sapere una parola della lingua parlata li’, oppure si sono dovuti occupare di un amico troppo bevuto o fumato, arrivando il giorno dopo con gli occhi pieni di sonno. In molti hanno avuto un professore dalle idee antiquate, una professoressa un po’ acida ma estremamente intelligente, e una bomba sexy in tailleur, tanto capace di insegnare quanto strafiga.
Ma il liceo e’ soprattutto segnato dalle amicizie, che si ricordano anche dopo anni, nonostante inevitabilmente ci si perda di vista. A volte sono le amicizie più sincere, quelle con persone con cui dividi nel bene o nel male 5 anni di vita. Ed e’ bello tornare a guardare i segni tangibili di quelle amicizie. Senza nostalgia, ma con un sorriso tranquillo.
Apre una lettera a caso, poi si ferma alle prime righe; sente che manca qualcosa. ‘Se proprio devo, allora facciamo le cose per bene’, mormora fra se e se. Apre di nuovo l’armadio e prende un piccolo stereo giallo e argento che da lontano ricorda vagamente una zucca, infila ‘Images and words’ dei Dream Theater nel lettore CD e preme il tasto play. E’ strano pensare come adesso abbia nelle orecchie musica del 1992, che adesso conosce a memoria, ma che nell’anno in cui uscì questo disco, a suo parere fondamentale, nessuna tra le persone di sua conoscenza sapesse minimamente dell’esistenza di quel tipo di musica. Torna a sedersi per terra e riprende la lettera. Più che una lettera e’ un dialogo sulla carta, una cosa non insolita al liceo, perchè si può far finta di prendere appunti e intanto discutere con chi ti sta accanto dei massimi sistemi, del senso della vita o di che compiti ci sono per l’indomani. Quel dialogo scritto a matita su un foglio di quadernone a righe e’ uno dei suoi preferiti, perchè l’altra parte del dialogo era riuscita a comunicare in quel modo una sua esperienza personalissima e terribilmente importante. ‘Stronzate’, dice il foglio, ‘e’ la cosa più naturale del mondo, non c’e’ bisogno di sapere niente, di come preoccuparsi su quello che si deve fare...mi auguro che anche per te sarà così...semplicemente unico!’. ‘Eh, già, a saperlo...’, pensa con un sorriso ironico, mentre prende un’altra lettera. Questa volta e’ scritta da una mano unica, c’e’ una vera busta e un timbro postale; la data e’ quella di un giorno di agosto dell’estate fra la prima e la seconda superiore. La sa a memoria quella lettera; e’ quella in cui si parla con enorme serietà del desiderio del suicidio, di una pace che può derivare solo dalla morte. Poi, dopo una pagina fitta di discorsi di questo tipo, la lettera finisce con due P.S. di tutt’altro tono: “Ho conosciuto un sacco di ragazzi, uno poi e’ stupendo; si chiama Umberto: MAZZA CHE FIGO!”, seguito da un “se al mio ritorno non mi hai scritto nemmeno una cartolina ti strappo le orecchie”. Conclude il tutto, sul retro dell’ultima pagina, un “Ti ho mai detto di volerti troppo bene?” scritto con la matita azzurra.
Riconosce il sentimento che sta provando. Malinconia e rimpianto, le strade che separano le persone, le telefonate che non arrivano più, la gente che cresce e cambia abitudini, si mette a lavorare, magari trova la persona con cui passare il resto della vita...come tutto questo possa scaturire da un po’ di fogli di carta scritti anni fa, resta un mistero. ‘OK, aspetto che finisca il CD poi mi rimetto a studiare. Sono le 18.00, qualcosa combinerò prima di cena’. In quel momento i suoi buoni propositi sono interrotti dallo squillo del suo cellulare. Strano, non riceve molte telefonate, potrebbe essere davvero chiunque. Si mette in ginocchio, allunga una mano verso il tavolo confusionario, afferra il cellulare e semplicemente risponde, senza neanche fare caso al numero che spicca sul display.
‘Pronto?’.
Dall’altra parte un secondo o due di silenzio, poi una voce. Maschile, non giovane ne’ vecchia, leggermente agitata, ma una bella voce in sostanza. Chiede:
‘Tiziana?’
Ora e’ lei a non sapere cosa rispondere.
‘No, scusa, mi dispiace, mi sa che hai sbagliato numero’.
Altra pausa, altra incertezza.
‘Non sei Tiziana? Davvero?’
‘No, davvero, mi dispiace’.
La voce maschile dall’altra parte e’ del tutto incredula. Le dice il numero che ha fatto, lei ascolta e conferma. E’ il suo numero, probabilmente gliene hanno dato uno sbagliato.
‘Non e’ possibile... me lo fai proprio apposta, eh?’, riprende l’altro.
‘Senti, più che dirti che mi dispiace, non posso fare altro. Ti assicuro che non c’entro e non lo sto facendo apposta’, riprende lei, vagamente stizzita da questo perfetto sconosciuto che neanche le chiede scusa e per di più dice che lo sta facendo apposta. Che cosa, poi, non si sa.
‘Infatti non stavo parlando con te’, riprende l’altro, vagamente polemico a sua volta.
‘Ma sai una cosa?’, riprende lei.
‘Cosa?’, il tono, più che polemico, ora sembra annoiato.
‘Tu stai cercando una persona che si chiama Tiziana, giusto?’
‘E allora?’, quasi sulla difensiva.
‘E’ strano: quando mi hai telefonato io stavo rileggendo le lettere della mia migliore amica del liceo...cose da adolescenti di circa 10 anni fa...e la mia migliore amica si chiamava proprio Tiziana!’
dall’altra parte di nuovo il silenzio, più lungo questa volta.
‘Ehi, ci sei ancora o sto parlando al muro?’, chiede lei.
‘Si’, ci sono...stavo solo pensando’.
‘Non sei uno di molte parole, eh? Comunque, e’ una buffa coincidenza, ti pare? Tu che chiami me cercando Tiziana, e io che nello stesso momento sto pensando ad un’altra Tiziana...aspetta!’
‘Cosa?’, tono fra il confuso e l’irritato, come se fosse la quarta volta che gli fanno vedere come funziona un marchingegno meccanico e lui non riesce a capire il concetto.
‘E se fosse la stessa Tiziana quella a cui stiamo pensando?’, lei invece ha un tono vivace, quasi entusiasta da questa improvvisa novita’.
‘E come facciamo a saperlo?’, riprende lui, un po’ più curioso questa volta. Lei sta un attimo in silenzio.
‘Prima di tutto, te ne frega qualcosa sapere se e’ la stessa Tiziana? Perchè io non l’ho praticamente più vista dopo l’esame di maturità, tu postresti averla conosciuta dopo, potresti sapere cose di lei che io non so, e io lo stesso per te’.
‘Uhm... potrebbe essere’, risponde lui.
‘Senti, capisco che in questo momento non hai voglia di sbilanciarti, o forse ti sto annoiando, insomma non e’ il momento adatto. Però magari potresti telefonarmi uno dei prossimi giorni, quando hai un po’ più voglia di parlare, ci scambiamo qualche informazione e cerchiamo di capire se e’ la stessa Tiziana. In fondo non e’ un nome così diffuso, le probabilità ci sono.
Altra pausa lunga dall’altra parte.
‘Va bene. Ti chiamo in settimana’.
‘Splendido! Non so se potrò stare al telefono a lungo, ho un esame importantissimo fra 10 giorni e sono indietro come un campo di meloni sulla mia tabella di marcia, però...’
‘Campo di meloni???’, tono decisamente divertito questa volta.
‘Ah, non ci badare, ogni tanto parlo così...fa niente, tu chiamami, così cerchiamo di capire se e’ la stessa Tiziana, promesso?’
‘Promesso’, conclude lui, ancora vagamente divertito, ‘ti chiamo io. Ciao’, e mette fine alla telefonata.
‘Ehi...va bene, ciao...oddio, ma che fai? Come ti sei ridotta ad attaccare bottone con un perfetto sconosciuto, di cui tra l’altro non sai neanche il nome, con solo l’idea che potreste conoscere la stessa Tiziana, cosa poi praticamente impossibile...’. Nel frattempo però, per un automatismo già collaudato da tempo, memorizza sul cellulare il numero del perfetto sconosciuto alla ricerca di Tiziana. Il CD dei Dream Theater in quel momento inizia la traccia numero 6, ‘Under a glass moon’. In mancanza di altri indizi, e in totale mancanza di originalità, digita ‘glassmoon’, tutto attaccato, come nome corrispondente al nome dello sconosciuto. Luna di vetro; a Tiziana, la sua, questa metafora sarebbe piaciuta sicuramente, magari l’avrebbe anche inserita in un tema su Ariosto o Leopardi, chissà.
Un’occhiata all’orologio le fa tirare un ennesimo sospiro, decisamente sconsolato. E’ quasi l’ora di cena e lei è così schifosamente indietro con lo studio; si prospetta una nuova eccitantissima serata sui libri, con il the al posto dell’acqua per tenersi sveglia e recuperare il tempo perso. Si alza definitivamente da terra, ripone con cura il magazzino dei ricordi dentro l’armadio, lascia lo stereo acceso e alza il volume solo un po’ (‘E che i vicini non si lamentino’, pensa), spegne la luce della stanza e va in cucina alla ricerca di qualcosa di decente, caldo e soprattutto ipocalorico con cui cenare.
Capitolo di Anna Minguzzi
Capitolo di Anna Minguzzi
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