lunedì 11 maggio 2020

SUL MATERASSO

Nel momento storico in cui tutti assaporano il mio quotidiano, ovvero il distanziamento sociale, io mi ritrovo per l’ennesima volta sveglio di notte a letto.
E cazzo, anche stavolta non sono da solo.
Negli ultimi mesi la mia vita è radicalmente cambiata, in meglio o peggio non lo so. 
È diversa e, forse, questa mi calza un pelo di più. 
La vita è così, alla fine. Fai delle scelte, e se sei una persona completa te ne assumi le responsabilità. Coi sensi di colpa, le pigne nel cervello, i rimorsi o i rimpianti. 
O forse no e sono le invenzioni della notte, un po’ come quel libro che ho letto tempo fa consigliatomi da un amico.
Mi giro, accendo il display del cellulare: l’una e quaranta.
Sono sveglio come un grillo.
Allungo la mano e c’è un culo nudo alla mia sinistra. Diverso dagli altri che ho avuto negli ultimi tempi. Lo accarezzo, piano, per non svegliarla. 
I casi della vita. Vai al pub, conosci una persona che ritieni un cesso e pure un po’ rompicoglioni e dopo un po’ capisci che alla fine ci stai bene. 
Riguardo l’orologio: l’una e quarantacinque.
Mi alzo? 
Mi rigiro? 
Prendo le gocce?
No. 
Accendo l’abat jour. La sveglio.
‘Senti, ti prego, facciamo l’amore?’
Non so perché mi è venuto questo tono quasi da supplica, sto quasi mendicando, ma alla fine so che se non succede scoppio a piangere, e non so perché.
Mezza rincoglionita dal sonno si sveglia di colpo, mi accarezza, e mi rassicura.
‘Ma certo, amore’
Ed è tragicamente dolce.
Mi chiedo perché, nel delirio della notte, continuo a ripeterle disperatamente ti amo, come se fosse una cosa proibita da dire alla luce del sole, come se fosse una cosa che deve succedere a mo di ritrovo da carboneria. 
Ma è stupido, ce lo siamo detti come due sedicenni il giorno prima, sorridendo come deficienti mentre bevevamo una birra.
Dopo un po’ ci stacchiamo, sudati, tranquilli, ma non sazi l’uno dell’altra. Rimaniamo un po’ abbracciati e crolliamo dal sonno. 
Mi risveglio verso le quattro. Riguardo il cellulare, controllo i messaggi. Nulla.
Grazie al cazzo, chi me li mandava di solito è qui con me. 
Eh, l’abitudine e l’ansia. Mi chiedo se me le toglierò mai come certi sensi di colpa. Mi alzo, tappa al cesso, filo in cucina, pinta d’acqua.
Sospiro, accendo la luce del soggiorno, mi siedo sul divano e controllo il telefonino.
Due ordini di dischi, finalmente mi tolgo dal groppone certi chiodi che possiedo e non avevo il coraggio di vendere. 
Qualche notifica sui social, due messaggi di un amico.
Continuo a cazzeggiare, ritorno su certe discussioni maldestre tra me e la mia ospite, e mi fermo a un suo filmato. 
Ho capito che ero pazzo di lei con quello. 
Nulla di sessuale, scabroso o che: lei che scuote la testa e sorride, felice. Tre secondi in tutto. Tre secondi che mi hanno fatto pensare ‘Mi piace questa donna. Mi piace tanto’.
Spengo il telefono. Sospiro.
Perché sono qui come un coglione sul divano?
Chiudo tutto, torno a letto. Sta dormendo, non mi interessa. La abbraccio, la riempio di baci dolci, delicati. La accarezzo in maniera impercettibile. 
Lei non lo saprà, ma io lo so. Voglio farlo e lo sto facendo. 
Mi chiedo perché, ma è una cosa che dura un attimo. Decido di smettere di chiedermelo, la stringo ancora più forte ma solo per un attimo. 
Poi torno dalla mia parte del letto, rifletto mentalmente a cosa prepararle per pranzo domani, dopodiché sto per crollare dal sonno ma non prima di essermi chiesto: 'è questa la felicità?'
Bravo coglione. Com’era quella canzone?
‘Che obbliga i propri pensieri a barare per soffrire meglio, che sciupa in anticipo ogni possibile gioia a forza di analisi e di osservazione’
Riallungo la mano. Mi tranquillizzo sfiorandole la schiena.
Sei felice. Goditela. Smettila con le sovrastrutture, coglione.
Mi rigiro e, nel silenzio, mi scappa un ‘buonanotte, amore’.
Dopodiché mi addormento sorridendo come un deficiente.

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