La porta semiblindata, il tavolo della cucina, il mobile del soggiorno alto circa un metro e ottanta con foto, suppellettili e ricordi di viaggi lontani incastrato tra due divani: uno giallo un po’ più vissuto e uno a fiori decisamente più nuovo.
Qualche copia di giornale, le tende sdrucite e il letto sfatto.
Una casa normale, al momento vuota perché attende il ritorno dei propri inquilini.
E invece no, perché a causa di una banale influenza come troppi l’hanno definita, quella casa rimarrà così, congelata nel tempo fino a che un nuovo proprietario o l’erede legittimo verrà a reclamarne la proprietà e a deciderne il destino.
Una casa come tante da febbraio 2020, e in alcuni casi anche da prima.
Come una moderna Chernobyl versione 2.0, con la differenza che, in questo caso, la gente viene portata via moribonda e non evacuata in salute anche se, alla fine, la sanificazione da radiazioni o virus è fatta con le medesime modalità.
Conoscevo le persone che vivevano in quella casa perché conoscevo quella casa, ci sono stato una pletora di volte, in gioia, dolore, emergenza e festa.
Era la casa di Armida e Emanuele, ridotti a semplici numeri statistici sui principali quotidiani nazionali come ‘+ 193 morti oggi in Lombardia’, come se quei morti non avessero diritto a un nome o dovessero essere deumanizzati perché farabutti che non pagano le tasse.
E invece no. Armida e Emanuele le tasse le pagavano, avevano una vita, una famiglia, dei parenti, una figlia, degli acciacchi e gente che li conosceva e con cui andavano d’accordo, delle speranze, dei sogni e dispensa e armadi pieni di cose che non avevano ancora usato: la pasta, lo scatolame, i calzini, o un vestito buono.
Ma in tempi di banali influenze sono bastati dieci giorni per spazzarne il ricordo, il loro come quello di tanti altri e a ridurli, appunto, a numeri da esibire.
Non troppo tempo fa sono passato davanti alla loro ormai ex casa e pensando a Emanuele mi son chiesto ‘chissà se magari lo incontro’, rendendomi conto subito dopo che quello che avevo appena pensato non succederà più.
Mai più.
Eppure mi sarebbe piaciuto, specie con Emanuele che mi era diventato un po’ un secondo padre dopo che il mio è venuto a mancare, parlarci di nuovo, discutere di politica seduto alla sua panchina mentre fumava un sigaro o magari offrirgli una grappa, che da buon Friulano non avrebbe sicuramente rifiutato.
Non ho avuto modo di salutare né lui né Armida, parlargli, spiegarmi, magari ricordare uno dei natali dove prima si prendeva per il culo quel triestino di mio padre e poi si finiva immancabilmente con vino e grappa a fare pace.
Ma è inutile, di loro mi rimane solo un ricordo che sbiadirà sempre di più e due lime che Emanuele mi prestò e che per un caso del destino sono rimaste nel mio box.
Due lime e qualche ricordo.
…perché, spesso, quello che possediamo ci sopravvive, anche se è economico, di poco valore, o apparentemente inutile o quotidiano come, appunto, un paio di calzini mai usati.
O Forse quelli di poco valore alla fine siamo noi?
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